A cura di Paolo Patrizio*
L’atteso recepimento della Direttiva europea in materia si pone quale ultimo tassello di un complesso processo che ha interessato, a livello interno e comunitario, l’evoluzione di questo fondamentale strumento di compliance nel mondo del lavoro.
Abstract
Il whistleblowing è un fondamentale strumento di compliance nel mondo del lavoro, introdotto nel nostro Paese da più di un decennio e, recentemente, tornato prepotentemente alla ribalta, grazie al nuovo impulso di conformazione dato dalla Direttiva UE 2019/1937. Le segnalazioni provenienti dall’interno dell’ambiente lavorativo possono, invero, facilitare l’emersione di comportamenti illeciti e scorretti, frapponendosi in chiave preventiva e repressiva a fenomeni corruttivi, criminosi e finanche di malpractice, ma è necessario garantire meccanismi e misure di protezione e tutela a carico del segnalante in funzione antiritorsiva ed antidiscriminatoria, non dimenticando, tuttavia, i pari diritti del segnalato, specie per le ipotesi di denuncia in malafede o per scopi estranei alla ratio normativa.
Il whistleblowing: origine ed evoluzione
“To blow the whistle” (letteralmente soffiare nel fischietto) è un gesto antico, quasi familiare a livello finanche inconscio, che riecheggia l’immagine di chi richiama l’attenzione collettiva su di un determinato evento, per sancirne l’importanza in chiave di pericolosità o di emersione subitanea dell’azione di riferimento, segnalandone la realizzazione o la necessità di intervento.
Ecco che la nostra mente corre veloce all’emblema iconico del classico poliziotto londinese, piuttosto che dell’arbitro di match ovvero ancora del capostazione ferrotranviario, intenti nel loro archetipo acustico per decretare alla folla l’esistenza di un pericolo, di una irregolarità, di una immediata esigenza di assistenza e supporto.
Ed è esattamente da questa iconografia classica che trae origine il termine inglese “whistleblower” (o “soffiatore di fischietto”), utilizzato per indicare colui che segnala o denuncia determinate condotte illecite o sospette di cui sia venuto a conoscenza in occasione del rapporto di lavoro.
Nel nostro Paese, la normazione regolamentativa del fenomeno è ascrivibile ad un decennio orsono, quando il legislatore del 2012 introdusse nell’ordinamento la legge n. 190 del 06 novembre 2012, in tema di “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella Pubblica Amministrazione”.
Obiettivo dichiarato delle prime previsioni in materia era quello di consentire l’emersione di presunti illeciti nel settore pubblico, imponendo l’adozione di un sistema interno di prevenzione e segnalazione, favorito da meccanismi di tutela del lavoratore denunciante, in funzione antirepressiva, antiritorsiva ed antidiscriminatoria.
Fulcro catalizzatore dell’assetto normativo in materia è stato, dunque, per lungo tempo, l’art. 54 bis del D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, meglio noto come Testo unico sul pubblico impiego, che cristallizza l’esigenza di “tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti”, prevedendo testualmente che: “… 1. Il pubblico dipendente che, nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione, segnala al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza di cui all’articolo 1, comma 7, della legge 6 novembre 2012, n. 190, ovvero all’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), o denuncia all’autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile, condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione. (…omissis ..). 2. (…omissis ..). 3. L’identità del segnalante non può essere rivelata. Nell’ambito del procedimento penale, l’identità del segnalante è coperta dal segreto nei modi e nei limiti previsti dall’articolo 329 del codice di procedura penale. Nell’ambito del procedimento dinanzi alla Corte dei conti, l’identità del segnalante non può essere rivelata fino alla chiusura della fase istruttoria. Nell’ambito del procedimento disciplinare l’identità del segnalante non può essere rivelata, ove la contestazione dell’addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione, anche se conseguenti alla stessa. Qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione e la conoscenza dell’identità del segnalante sia indispensabile per la difesa dell’incolpato, la segnalazione sarà utilizzabile ai fini del procedimento disciplinare solo in presenza di consenso del segnalante alla rivelazione della sua identità. 4. La segnalazione è sottratta all’accesso previsto dagli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni. 5. (..omissis …). 6. Qualora venga accertata, nell’ambito dell’istruttoria condotta dall’ANAC, l’adozione di misure discriminatorie da parte di una delle amministrazioni pubbliche o di uno degli enti di cui al comma 2, fermi restando gli altri profili di responsabilità, l’ANAC applica al responsabile che ha adottato tale misura una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 30.000 euro. (.. omissis ..). 7. È a carico dell’amministrazione pubblica o dell’ente di cui al comma 2 dimostrare che le misure discriminatorie o ritorsive, adottate nei confronti del segnalante, sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione stessa. Gli atti discriminatori o ritorsivi adottati dall’amministrazione o dall’ente sono nulli. 8. Il segnalante che sia licenziato a motivo della segnalazione è reintegrato nel posto di lavoro ai sensi dell’articolo 2 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23. 9. (…omissis ..)..”.
Tale regolamentazione, grazie anche alla spinta comunitaria (in primis con la Direttiva 2004/39/CE, c.d. Mifid2 “Markets in financial instruments Directive” – ovvero “Direttiva sui mercati degli strumenti finanziari”) è stata, quindi, progressivamente estesa anche al settore privato, con l’introduzione della Legge 30 novembre 2017, n. 179, che ha previsto l’obbligo di istituzione di canali di segnalazioni anche per le aziende del settore privato dotate di modello organizzativo 231, integrando in questo modo la preesistente disciplina dettata per il settore pubblico (art. 54-bis, D. Lgs. n. 165/2001).
Così dispone, infatti, l’art. 2 della L. 179/2017, in merito alla “Tutela del dipendente o collaboratore che segnala illeciti nel settore privato”: “… 1. All’articolo 6 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, dopo il comma 2 sono inseriti i seguenti: «2-bis. I modelli di cui alla lettera a) del comma 1 prevedono: a) uno o più canali che consentano ai soggetti indicati nell’articolo 5, comma 1, lettere a) e b), di presentare, a tutela dell’integrità dell’ente, segnalazioni circostanziate di condotte illecite, rilevanti ai sensi del presente decreto e fondate su elementi di fatto precisi e concordanti, o di violazioni del modello di organizzazione e gestione dell’ente, di cui siano venuti a conoscenza in ragione delle funzioni svolte; tali canali garantiscono la riservatezza dell’identità del segnalante nelle attività di gestione della segnalazione; b) almeno un canale alternativo di segnalazione idoneo a garantire, con modalità informatiche, la riservatezza dell’identità del segnalante; c) il divieto di atti di ritorsione o discriminatori, diretti o indiretti, nei confronti del segnalante per motivi collegati, direttamente o indirettamente, alla segnalazione; d) nel sistema disciplinare adottato ai sensi del comma 2, lettera e), sanzioni nei confronti di chi viola le misure di tutela del segnalante, nonchè di chi effettua con dolo o colpa grave segnalazioni che si rivelano infondate. 2-ter. (…omissis ..); 2-quater. Il licenziamento ritorsivo o discriminatorio del soggetto segnalante è nullo. Sono altresì nulli il mutamento di mansioni ai sensi dell’articolo 2103 del codice civile, nonché qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria adottata nei confronti del segnalante. E’ onere del datore di lavoro, in caso di controversie legate all’irrogazione di sanzioni disciplinari, o a demansionamenti, licenziamenti, trasferimenti, o sottoposizione del segnalante ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro, successivi alla presentazione della segnalazione, dimostrare che tali misure sono fondate su ragioni estranee alla segnalazione stessa.».
Il whistleblowing assurge, dunque, a fondamentale strumento di compliance aziendale, siccome in grado di rafforzare il sistema di controllo interno in funzione preventiva, grazie alla possibilità di emersione di eventuali illiceità e criticità prima che queste diano luogo a più gravi danni e/o responsabilità.
Nel corso degli ultimi anni, poi, si è assistito ad un crescente aumento dell’attenzione verso la tematica de qua, sino alla pubblicazione, in data dicembre 2019, della Direttiva UE 2019/1937 sul Whistleblowing, con l’obiettivo di:
- implementare la rilevazione e prevenzione di comportamenti scorretti ed illeciti relativi al diritto dell’UE (come frode fiscale, riciclaggio di denaro o reati in materia di appalti pubblici, sicurezza dei prodotti e stradale, protezione dell’ambiente, salute pubblica e tutela dei consumatori e dei dati);
- migliorare ed estendere l’utilizzo di canali di segnalazione efficaci, affidabili e sicuri;
- garantire la protezione dei segnalanti da eventuali ritorsioni, licenziamenti, demansionamenti ed atti discriminatori in genere, con estensione della tutela non solo nei confronti dei dipendenti ma anche a quei soggetti terzi (quali clienti, fornitori, candidati, ex dipendenti, giornalisti) che effettuano la segnalazione.
Le previsioni della Direttiva sono rivolte alle aziende con più di 50 dipendenti, alle istituzioni del settore pubblico, alle autorità ed ai Comuni con più di 10.000 abitanti, che sono obbligati a predisporre adeguati canali di segnalazione interni, se pur con sfasamento della tempistiche di allineamento precettivo (fissate al 17 dicembre 2019 per le aziende con più di 249 dipendenti ed al 17 dicembre 2023 per quelle tra i 50 e 250 dipendenti) ed esortazione dei legislatori nazionali all’estensione dell’ambito di applicazione per materie e settori ulteriori, rispetto a quelli di interesse comunitario.
La disciplina del whistleblowing, tra “paletti” normativi e strumenti di tutela
Ecco allora che, dall’esame complessivo dei tratti caratterizzanti la disciplina in commento è, dunque, possibile ricavare alcuni spunti di riflessione e dibattito, in relazione alla concreta portata precettiva delle norme di riferimento, in uno agli effettivi confini delle previsioni di tutela applicabili alle più comuni fattispecie circostanziali in materia.
Partiamo, quindi, da un primo dato inerente all’ambito operativo della disciplina in oggetto, con particolare riferimento alla sostanziale impossibilità di estensione analogica delle previsioni di tutela ivi articolate, in ossequio alla chiara portata dell’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale.
Pur nella diversità di ambiti e disciplina, invero, tanto il Giudice Amministrativo quanto quello ordinario hanno espressamente evidenziato l’inapplicabilità e l’inutilizzabilità della disciplina dettata in materia di whistleblowing, al di fuori degli stringenti confini delineati dalle specifiche disposizioni di legge.
In tal senso, ad esempio, il T.A.R. Abruzzo, sez. I, con la pronuncia n. 12 del 04/04/2020 ha riconosciuto, con particolare riferimento all’ambito pubblico, come l’istituto del cd. Whistleblowing non trovi applicazione al di fuori dei casi e delle previsioni rigorosamente sancite dal disposto del menzionato art. 54 bis del D.lgs 165/2001, giustificandosi la portata derogatoria della normativa de qua solo in presenza di una segnalazione indirizzata ai soggetti indicati nella norma (e, dunque, il responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza; l’Autorità nazionale anticorruzione; l’autorità giudiziaria ordinaria o contabile) e, peraltro, nei limiti in cui essa sia motivata “nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione”.
Di medesimo avviso il Giudice del lavoro del Tribunale di Milano, che con sentenza del 10 marzo 2021 ha ribadito come la disciplina in materia di whistleblowing si applichi solo alle segnalazioni inviate con i canali di trasmissione previsti dalla normativa stessa e non anche alle denunce presentate all’autorità giudiziaria o alla stampa, rimarcando oltretutto l’estraneità della speciale protezione prevista dalla L. 179/2017 a scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti ai rapporto di lavoro nei confronti di superiori, restando tale tipo di conflitti disciplinato da altre normative e da altre procedure.
La legge, inoltre, non consente alcuna ipotesi di attiva acquisizione di informazioni, autorizzando improprie attività investigative, in violazione dei limiti posti dalla legge. La tutela, infatti, scatta solo nei confronti di chi segnala notizie di un’attività illecita, acquisite nell’ambiente e in occasione del lavoro, non essendo ipotizzabile una tacita adesione a non autorizzate azioni di “indagine”, con contestuale esclusione finanche della scriminante dell’adempimento del dovere, neppure sotto il profilo putativo (vedasi in tal senso Cassazione penale sez. V, sentenza del 21/05/2018 n. 35792, per il caso di un soggetto che si era introdotto abusivamente nel sistema informatico dell’ufficio pubblico cui apparteneva, sostenendo che lo aveva fatto solo per l’asserita finalità di sperimentazione della vulnerabilità del sistema).
Anche la tutela dell’anonimato del whistleblower sconta diversi limiti operativi, con distinzioni di ambiti e di garanzie, tanto in seno allo stesso procedimento disciplinare, quanto nel rapporto con il procedimento penale.
L’art. 54 bis del d.lgs. n. 165/2001, infatti, sottrae espressamente la segnalazione del whistleblower all’accesso previsto dagli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241, ma solo ai fini della procedura disciplinare, operando, peraltro, un importante distinguo di ipotesi.
Nel caso, invero, di procedimento disciplinare scaturito da segnalazioni ma fondato su accertamenti “distinti e ulteriori” rispetto alla segnalazione, anche se conseguenti ad essa, viene preclusa la rivelazione dell’identità del segnalante, in quanto non corrispondente ad alcun controinteresse del segnalato idoneo a giustificare la diminutio di tutela dell’anonimato garantito dalla norma. Al contrario,qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione e la conoscenza dell’identità del segnalante sia indispensabile per la difesa dell’incolpato, la segnalazione sarà utilizzabile ai fini del procedimento disciplinare solo in presenza di consenso del segnalante alla rivelazione della sua identità.
Il riserbo sull’identità del whistleblower è, invece, escluso nel caso di procedimento penale, in cui, come confermato nella recente modifica dell’articolo 54-bis del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165, operata con la legge 30 novembre 2017 n. 1279, l’identità del segnalante è coperta dal segreto solo nei modi e nei limiti previsti dall’articolo 329 del C.p.p.
A partire dalle “pronunce gemelle” del 2018, la Suprema Corte di Cassazione ha, infatti, precisato come il cosiddetto “canale Whistleblowing” garantisca l’anonimato del segnalante nell’ambito disciplinare ma allo stesso tempo consenta l’individualità del whistleblower in caso di dichiarazione accusatoria in ambito penale, perché l’individuazione dell’accusatore è essenziale per la difesa dell’incolpato. La tutela, quindi, è stata riservata sia al segnalatore d’illeciti, che non può essere vittima, tramite l’anonimato, di sanzioni disciplinari o licenziamento, sia al presunto colpevole, che potrà, in ambito penale, sapere l’identità dell’accusatore per potersi difendere nel processo (vedasi Cassazione penale sez. VI, 31/01/2018, n. 9047).
Parimenti stringenti, ma non meno dirompenti, sotto determinati aspetti, sono le previsioni di tutela del whistleblowing in riferimento al settore privato, grazie alle disposizioni introdotte dalla novella del 2017.
Ad una prima veloce lettura, infatti, la portata della L. 179/2017, che all’art. 2, comma 2quater, prevede la nullità del licenziamento ritorsivo del whistleblower, sembrerebbe non aggiungere nulla di nuovo rispetto alle precedenti disposizioni di legge che già sanciscono, di per sé, la nullità in nuce di qualsiasi licenziamento ritorsivo.
Ma, ad uno sguardo più attento, emerge chiara la fondamentale novità introdotta dal legislatore in materia, in quanto afferente al diverso riparto dell’onere probatorio, che viene integralmente ribaltato sulla parte datoriale.
La rivoluzione è senza dubbio copernicana, perché mentre per le classiche ipotesi di licenziamento de quo spetta al lavoratore dimostrare la natura ritorsiva della reazione datoriale con tutte le connesse difficoltà e preclusioni del caso, la L. 179/2017 prevede, invece, che, in caso di controversia legata al licenziamento del whistleblower, sia il datore di lavoro a dover dimostrare che il recesso è stato intimato per ragioni estranee alla segnalazione stessa, ribaltando, in questo modo, l’onere probatorio.
Se, dunque, la ratio sottesa alla previsione dell’istituto del whistleblowing è quella di favorire l’emersione di illeciti e criticità comportamentali nell’attività degli enti, tanto pubblici che privati, garantendo al segnalante tutta una serie di tutele antiritorsive, antirepressive, antidiscriminatorie e di riservatezza, è specularmente innegabile come la normativa de qua si presti ad una interpretazione in chiaroscuro, in considerazione del sostanziale vuoto di protezione riservato, invece, al soggetto segnalato.
A ben vedere, infatti, nel totale silenzio normativo sul punto, le uniche forme di deterrenza rispetto all’utilizzo di segnalazioni infondate o, peggio ancora, ab origine false o prettamente strumentali (siccome dettate da logiche di rivalsa, rivalità, invidia, mera antipatia, avanzamenti di carriera e similari) resterebbero confinate nell’ambito della sanzionabilità disciplinare della condotta, qualora posta in essere con dolo o colpa grave, in disparte ogni considerazione in merito all’integrazione dei reati di calunnia o diffamazione qualora la condotta ne integri i rispettivi presupposti.
Per la Suprema Corte è, invero, legittimo il licenziamento disciplinare intimato al lavoratore pubblico che invii ad alcuni soggetti istituzionali (prefettura, procura della repubblica e Corte dei conti) una memoria contenente la denunzia di condotte illecite da parte dell’amministrazione di appartenenza palesemente priva di fondamento, configurandosi una condotta illecita, univocamente diretta a gettare discredito sull’amministrazione medesima, non potendosi peraltro configurare, nella specie, le condizioni per l’applicabilità della disciplina del c.d. “whistleblowing” ex art. 54 bis d.lg. n. 165 del 2001. (Cassazione civile sez. lav., 24/01/2017, n.1752).
Senonché, un ragionamento di bilanciamento si è aperto in merito alla doverosità o anche mera opportunità di prevedere una successiva comunicazione, al segnalato, della segnalazione rivelatasi infondata e dolosa, così da garantire al soggetto ingiustamente incolpato di rivalersi, nei confronti del segnalante, nelle opportune sedi, civili e penali.
Le argomentazioni avanzate dai sostenitori di tale opportunità si concentrano, infatti, sulla ratio stessa della tutela apprestata dalla disciplina del whistleblowing, il cui obiettivo è quello di incentivare e salvaguardare le segnalazioni fatte in buona fede e correttezza dal lavoratore, sfavorendone un utilizzo distorto e disdicevole dell’istituto, laddove venisse questo stesso adottato in senso diffamatorio, calunnioso e di discredito lavorativo.
La negazione di contromisure di informativa del soggetto segnalato, invero, comporterebbe una “zona grigia” di impunità del segnalatore in mala fede, il quale si vedrebbe garantito un sostanziale “anonimato di copertura”, in spregio ad ogni valenza positiva e finalistica della disciplina del whistleblowing.
Al contrario, la previsione espressa di un controdiritto conoscitivo del segnalato, per le ipotesi anzidette, consentirebbe allo stesso di valutare l’adozione delle più opportune azioni a tutela della propria reputazione, diritti e posizioni, con conseguente recupero, se pur ex post, di una efficacia deterrente inversa per le strumentalizzazioni dolose dell’istituto in menzione.
Più spinosa la discussione in merito alla segnalazione colposa non grave, siccome sottratta anche al mero ambito applicativo di matrice disciplinare, la cui rivelazione al segnalante potrebbe potenzialmente mettere in discussione la valenza stessa della struttura garantista della disciplina sul whistleblowing, perché, di fatto ridurrebbe di molto il diritto all’anonimato, in relazione alla moltitudine di condotte “dubbie” che possono verificarsi nel contesto lavorativo, svilendo la funzione virtuosa dell’istituto in applicazione preventiva e precauzionale.
Conclusioni
Il whistleblowing rappresenta, in conclusione, un fondamentale strumento di innovazione normativa, che impone una rivisitazione stessa del concetto di delazione in chiave sociale e cultural preventiva.
Le segnalazioni provenienti dall’interno dell’ambiente lavorativo possono, invero, facilitare l’emersione di comportamenti illeciti e scorretti, frapponendosi in chiave preventiva e repressiva a fenomeni corruttivi, criminosi e finanche di malpractice, in uno iato temporale di fondamentale pre criticità.
La previsione di meccanismi e misure di protezione, garanzia e tutela a carico del segnalante rappresentano, pertanto, non solo un indice di civiltà giuridica e di incentivazione alla cooperazione multilivello, ma un grimaldello stesso per consentire una forte implementazione dell’istituto del whistleblowing.
Ciò consente, dunque, non solo l’innalzamento del sistema di compliance aziendale, con i connessi, evidenti benefici operativi e scalari, ma determina al contempo la diffusione di una cultura di legalità e di etica comportamentale all’interno dei diversi contesti lavorativi, in un rapporto biunivoco, in ultima istanza, tra le stesse persone (fisiche e giuridiche) e l’autorità, in senso lato.
La sfida sottesa all’espansione del whistleblowing, allora, si traduce in una scommessa connessa alla richiesta di un profondo cambio di paradigma culturale ed operativo, volto all’abbandono dell’habitus omertoso che troppo spesso connota gli ambiti pubblici e privati, in nome di un rilancio dei doveri di correttezza e cooperazione a tutto tondo, tra cui spicca la delazione virtuosa, favorita e tutelata dal legislatore nostrano e comunitario.
*Docente diritto del Lavoro Università ONU e Trani – Comitato Scientifico Il Foro Vibonese
Tag: Direttiva UE 2019/1937, Paolo Patrizio, Whistleblowing