LE MODIFICHE INTRODOTTE DAL D. LGS. N. 149/2022 PUBBLICATO SULLA G.U. N. 243 DEL 17.10.2022
Angela Di Rienzo*
La c.d. riforma Cartabia di cui al D.Lgs. n. 149/2022, nata con l’intento di velocizzare i processi al fine di decongestionare le aule giudiziarie e soprattutto per fornire risposte più immediate a chi invoca tutela giudiziaria o è costretto a difendersi da altrui evocazioni in giudizio, non ha apportato profonde innovazioni al processo del lavoro, posto che la sua dinamica è rimasta pressoché invariata, anzi estesi i relativi confini applicativi.
Il che lascia intendere che a distanza di cinquant’anni dalla sua introduzione, disposta con la legge 11 agosto 1973, n 533, il processo del lavoro soddisfa ancora quelle esigenze di speditezza e celerità rese ancor più indispensabili dalla particolarità dei diritti coinvolti oltre che dalla disparità socio-economica sottesa. I particolari poteri conferiti al giudice dalla specialità del rito, al fine di contemperare il principio dispositivo con la ricerca della verità materiale, evidentemente rendono fluido il processo e, almeno nella teoria, dovrebbero garantire quella velocizzazione di svolgimento che, però, nella pratica, molte volte viene ostacolata dalle difficoltà organizzative degli Uffici, specie di piccole dimensioni, oltre che dalla carenza di organico, nonostante la buona volontà di Magistrati e soggetti coinvolti.
Un piccolo ritocco, dunque, è intervenuto relativamente all’art. 430 c.p.c.: per il deposito della sentenza è stato soppresso il termine di quindici giorni dalla pronuncia perché trattavasi di termine in evidente contrasto con la disposizione di cui all’art. 429, 1° comma, c.p.c., che consente il deposito delle motivazioni o contestualmente al dispositivo ovvero entro un termine fissato dal giudice e non superiore a sessanta giorni. Il cancelliere dovrà comunque dare comunicazione alle parti della sentenza quando la stessa è depositata fuori udienza, avendone diversamente contezza le parti stesse se lette le motivazioni unitamente al dispositivo nel corso dell’udienza medesima.
Ritocco pure è intervenuto in ordine alle modalità di redazione dell’appello, laddove si richiede ora indicazione del capo della decisione di primo grado che viene impugnato e non più delle parti del provvedimento che si intende appellare. Dovranno, inoltre, essere espresse le censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado, nonchè, ancora, le violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata. In sintonia con quanto disposto in interventi correttivi effettuati in altri ambiti processuali, il modificato art. 434 c.p.c., al suo primo comma, statuisce che l’indicazione di quanto richiesto sia effettuata, a pena di inammissibilità, “in modo chiaro, sintetico e specifico”. Si consenta di esprimere rilevanti perplessità sulla detta statuizione posto che, a parere di chi scrive, ciò che viene sancito a pena di inammissibilità non può non essere permeato di oggettività, quell’oggettività che nella specie difetta pienamente. Non sempre, peraltro, la sintesi è sinonimo di chiarezza così come non sempre è facile individuare le modalità che, nella singola fattispecie, quell’organo giudicante adito ritenga conforme ai dettami di legge, specie laddove, ad esempio, molti siano gli istituti giuridici coinvolti ovvero molte le circostanze da rappresentare. Consapevoli, comunque, che trattasi di principi disposti al precipuo fine di conseguire gli obiettivi della ragionevole durata del processo, dell’abbattimento dell’arretrato, etc. etc., si ritiene che, in ogni caso, mai, se non in casi estremi, la forma possa andare a detrimento della sostanza assumendo tale prevalenza da pregiudicare il diritto azionato e la fondatezza delle relative domande proposte sicchè si è certi che nell’applicazione delle norme si continuerà a conferire prioritaria rilevanza al bene della vita oggetto di controversia. Sempre in ossequio a quei principi di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo civile, sono state introdotte nella fase di gravame due modalità di definizione, una semplificata descritta dall’art. 436-bis c.p.c. nella quale, nelle ipotesi di improcedibilità dell’appello, inammissibilità e manifesta infondatezza o fondatezza dello stesso, all’esito della discussione è pronunciata integralmente la sentenza, mediante lettura del dispositivo e della motivazione, redatta in forma sintetica. L’altra disciplinata dagli artt. 437, 438 c.p.c. in virtù dei quali, allorchè il collegio non provveda ai sensi dell’art 436 bis, continua ad essere pronunciato il solo dispositivo nell’udienza di discussione ed il termine per il deposito della sentenza è fissato entro i 60 giorni dalla pronuncia.
Preme, ora, soffermarsi su quella che si ritiene costituisca la più rilevante modifica introdotta nel processo del lavoro dalla novella, ossia quell’ampliamento applicativo cui sopra è cenno. Il D.lgs. n. 149/2022 ha, infatti, introdotto il Capo 1 bis relativo alle controversie relative ai licenziamenti ed ha inserito nel medesimo capo gli artt. 441 bis, 441 ter e 441 quater. La c.d. riforma Cartabia ha colto le negatività di un rito, quello Fornero di cui alla Legge 92/2012, con la sua applicazione ai soli licenziamenti disciplinati dal famoso articolo 18 dello Statuto dei lavoratori; con una impostazione bifasica che spesso dilazionava eccessivamente i tempi processuali, a volte anche inutilmente stante la quasi sempre consueta conferma del primo pronunciamento per essere il giudice dell’opposizione lo stesso della fase sommaria; con la proliferazione di processi determinata dall’impossibilità di introdurre con il medesimo rito domande diverse da quelle attinenti alla mera richiesta inerente la legittimità del licenziamento; con l’inapplicabilità del rito medesimo ai licenziamenti intimati ai lavoratori assunti successivamente al 7 marzo 2015, etc, etc.. Nel rispetto, dunque, della legge 206/2021 che delegava il Governo ad emanare norme volte ad unificare e coordinare la disciplina dei procedimenti di impugnazione dei licenziamenti anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro, assegnando carattere prioritario alle cause di licenziamenti, la riforma Cartabia ha abrogato il rito Fornero e statuito dinamiche rispondenti a due principi fondamentali, ossia quello della unificazione del rito e quello della celerità.
Quanto alla unificazione del rito, con l’avvento delle nuove disposizioni, non sussistono più riti differenziati a seconda della data di assunzione del lavoratore e/o delle domande proposte e/o dei requisiti dimensionali del datore di lavoro, ma unico rito nel senso che oggi, cosi come avveniva in precedenza, il lavoratore che intenda impugnare il licenziamento intimatogli dal datore di lavoro dovrà farlo sempre procedendo con il rito ordinario, nel rispetto dei dettami di cui agli artt. 414 e ss. c.p.c., integrati con quelli di cui agli artt. 441 bis e ss. c.p.c. allorchè proponga anche domanda di reintegrazione. Rilevanti, dunque, le novità. Il ricorso introduttivo che, in virtù dell’abrogato art. 1, comma 48, della L. n. 92/2012, doveva possedere i requisiti di cui all’articolo 125 del codice di procedura civile, adesso, invece, deve contenere quanto espressamente indicato dall’art. 414 c.p.c.. Circostanza questa non di poco conto se si consideri che nel precedente svolgimento bifasico del rito Fornero, con una prima fase ad istruttoria sommaria, diretta ad assicurare una più rapida tutela al lavoratore, ed una seconda fase, a cognizione piena, che della precedente costituiva una prosecuzione (1), l’attività istruttoria svolta in entrambe le fasi del giudizio di primo grado era sottoposta a valutazione unitaria, “senza che si possano scindere per fasi gli adempimenti richiesti alle parti in tema di formazione della prova, sicché nel giudizio di opposizione la parte conserva integra ogni opzione istruttoria, a prescindere dalle scelte processuali in precedenza operate” (2). Era, addirittura, consentito dedurre nella fase di opposizione ulteriori motivi di invalidità del licenziamento impugnato (3). Il ricorso introduttivo, adesso, invece, si appalesa insuscettibile di integrazioni e/o modificazioni, se non conseguenziali alla difesa di parte resistente. Il thema decidendum, con tutte le preclusioni e decadenze, si standardizza al momento della proposizione del ricorso che deve contenere in sé tutti gli elementi ex lege previsti, anche con indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali ci si vuole avvalere.
L’udienza di comparizione delle parti, poi, non è più fissata non oltre quaranta giorni dal deposito del ricorso come avveniva in precedenza ma deve essere fissata entro sessanta giorni ed il termine per la notifica del ricorso introduttivo e del decreto non dovrà più esser effettuata almeno venticinque giorni prima dell’udienza bensì nel termine non minore di trenta giorni prima, di cui al quinto comma dell’art. 415 c.p.c.. Per la costituzione del resistente, poi, in precedenza veniva assegnato un termine non inferiore a cinque giorni prima dell’udienza fissata, il cui mancato rispetto veniva considerato per nulla foriero di conseguenze, mentre ora il resistente deve costituirsi almeno dieci giorni prima dell’udienza, salvo incorrere nelle preclusioni di cui al medesimo articolo. Ai sensi dell’art. 416 c.p.c., infatti, il convenuto deve costituirsi almeno dieci giorni prima dell’udienza mediante deposito in cancelleria di una memoria difensiva nella quale devono essere proposte a pena di decadenza le eventuali domande in via riconvenzionale e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio. Nella stessa memoria deve prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda, proporre tutte le sue difese in fatto ed in diritto ed indicare specificamente, a pena di decadenza, i mezzi di prova dei quali intende avvalersi ed in particolare i documenti che deve contestualmente depositare.
Quanto al principio della celerità, lo stesso è desumibile dal neo introdotto art. 441 bis c.p.c., che disciplina la trattazione delle cause di licenziamento in cui sia proposta anche domanda di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. Principio della celerità che non intacca quello dell’unicità del rito, se non per alcuni profili. Anche le cause nelle quali si discuta del diritto del lavoratore ad essere reintegrato nel posto di lavoro in precedenza occupato, infatti, soggiacciono alle norme del capo primo del titolo IV, ivi incluse quelle di cui ai succitati artt. 415 e ss. c.p.c.. Recita, infatti, il secondo comma del citato art. 441 bis c.p.c.: “Salvo quanto stabilito nel presente articolo, le controversie di cui al primo comma -ossia, appunto, quelle aventi ad oggetto l’impugnazione dei licenziamenti nei quali è proposta domanda di reintegrazione- sono assoggettate alle norme del capo primo”. In cosa, dunque, consiste questa innovata celerità? E’ il primo comma del medesimo art. 441 bis c.p.c. che né dà contezza laddove afferma testualmente che “la trattazione e la decisione delle controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei licenziamenti nelle quali è proposta domanda di reintegrazione nel posto di lavoro hanno carattere prioritario rispetto alle altre pendenti sul ruolo del giudice, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto”.
Il legislatore, dunque, laddove la domanda connessa all’impugnazione del licenziamento non sia una mera richiesta indennitaria bensì sia proposta domanda di condanna datoriale alla reintegra del lavoratore licenziato nel posto di lavoro in precedenza occupato, ha ideato un percorso meramente acceleratorio senza in alcun modo incidere sul rito. In questi casi, dunque, il giudizio scivola automaticamente in una corsia preferenziale sicchè non potrà in alcun modo risentire del carico di ruolo del Magistrato assegnatario né esser posposto nella trattazione a cause con diverso oggetto di precedente iscrizione a ruolo. E ciò anche quando debbano essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro. Ma vi è di più. La domanda di reintegrazione del posto di lavoro come formulata dal ricorrente conferisce al Magistrato adito un potere di intervento atto ad assicurare al processo una ancora maggiore speditezza posto che, tenuto conto delle circostanze esposte nel ricorso, Egli può ridurre i termini del procedimento fino alla metà, “fermo restando che tra la data di notificazione al convenuto o al terzo chiamato e quella dell’udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di venti giorni e che, in tal caso, il termine per la costituzione del convenuto o del terzo chiamato è ridotto della metà”. La formulazione letterale della citata norma di cui al terzo comma dell’art. 441 bis c.p.c. lascia intendere che il potere del Giudice sia esercitabile anche d’Ufficio, indipendentemente da una sollecitazione della parte che pure non viene esclusa, manifestandosi discrezionale sia nell’an che nel quomodo. Ma proprio perché trattasi di potere esercitabile, eventualmente, anche d’Ufficio, ciò comporterà l’indispensabilità che il ricorso, oltre a basarsi sulle censure relative all’atto espulsivo impugnato, riferisca con evidente pregnanza quelle particolari ragioni di urgenza ed emergenza nelle quali si si sia venuto a trovare il lavoratore licenziato, di tal rilevanza da assumere anche connotati ulteriori rispetto alle oggettive, consuete difficoltà vissute da chiunque abbia repentinamente perduto il posto di lavoro per decisione datoriale. Circostanze, dunque, particolari, che non consentono di attendere l’ordinario svolgimento di un giudizio nei tempi consueti. Non apparirà ultroneo ribadire come tale potere sia stato contemplato per i soli giudizi di impugnazione con domanda di reintegra costituendo questo, a parere di chi scrive, un limite, posto che possono indubbiamente sussistere circostanze nelle quali l’infondatezza del licenziamento comporti la sola tutela indennitaria ma non per questo la condizione del licenziato presenti minori requisiti di urgenza.
Ad ogni modo, il potere acceleratorio dalla Riforma Cartabia conferito al Magistrato decidente non si esaurisce qui. Recita, infatti, testualmente il quarto comma dell’art. 441 bis c.p.c.: “ all’udienza di discussione il giudice dispone, in relazione alle esigenze di celerità anche prospettate dalle parti, la trattazione congiunta di eventuali domande connesse e riconvenzionali ovvero la loro separazione, assicurando in ogni caso la concentrazione della fase istruttoria e di quella decisoria in relazione alle domande di reintegrazione nel posto di lavoro”. E’ cioè inserito anche nel processo del lavoro e sempre con riferimento alle sole impugnazioni accompagnate da domande di reintegra quello stesso potere che il Giudice ha nel procedimento sommario di cognizione laddove è previsto che Egli possa disporre la separazione della causa relativa alla domanda riconvenzionale. quando essa richieda una istruzione non sommaria (art. 702 ter, 3° comma, c.p.c.). Si rammenterà che la legge m. 92/2012 consentiva la trattazione con il rito Fornero delle sole domande di impugnativa di licenziamento e delle domande fondate sugli stessi fatti costitutivi. L’art. 1, comma 56, legge 92/2012 dal canto suo, consentiva la trattazione delle domande riconvenzionali solo nella fase di opposizione e sempre che le cause fossero fondate su fatti costitutivi identici a quelli posti a base della domanda principale. L’obiettivo era chiaro. Essendo stata previsto un rito bifasico, la prima fase doveva svolgersi celermente e solo in caso di opposizione il processo poteva espandersi consentendo, ad esempio, anche la chiamata di terzo e la proposizione di domanda riconvenzionale. Oggi, invece, ritornati gli atti di costituzione nell’alveo dell’ordinaria impostazione di cui, rispettivamente, all’art. 414 c.p.c. e 416 c.p.c., con ogni relativa preclusione e decadenza, appare evidente come il ricorrente possa formulare domande ulteriori rispetto a quelle connesse all’impugnazione del licenziamento ed il resistente possa difendersi proponendo eventualmente, anche immediatamente, domande di estensione del contraddittorio e/o riconvenzionali. Spetterà, dunque, al Giudice di volta in volta valutare se la trattazione congiunta delle domande connesse e delle riconvenzionali possa pregiudicare la speditezza che deve contraddistinguere la decisione in ordine al recesso optando per la loro separazione ogni qualvolta riterrà che la celerità di svolgimento del processo possa subire compromissioni di alcun genere. In questa fase, dunque, a differenza della precedente nella quale la norma fa riferimento ai soli rilievi di cui al ricorso, il Giudice terrà conto anche delle prospettazioni provenienti dalle parti. Occorrerà, comunque, -precisa l’art. 414 bis c.p.c.- che sia in ogni caso assicurata la concentrazione della fase istruttoria e di quella decisoria in relazione alle domande di reintegrazione nel posto di lavoro. Viene, dunque, da pensare che, ad esempio, allorchè il lavoratore formuli domanda subordinata per ottenere il pagamento del TFR e/o dell’indennità sostitutiva del preavviso, non ampliandosi l’oggetto del giudizio, la concentrazione del procedimento non subisca alcun nocumento, così appalesandosi possibile una valutazione congiunta. Del pari nel caso in cui occorra procedere all’accertamento delle mansioni in concreto svolte dal ricorrente per valutare se sia stato o meno rispettato dal datore di lavoro l’obbligo di repechage. L’opportunità di una separazione, invece, può palesarsi ogni qualvolta sia necessario estendere il campo di indagine in ambiti del tutto diversi rispetti a quelli che ruotano intorno alla valutazione della fondatezza o meno del licenziamento come può accadere, sempre a titolo esemplificativo, allorchè vengano contestualmente avanzate domande connesse allo svolgimento di mansioni superiori. “A tal fine il giudice riserva particolari giorni, anche ravvicinati, nel calendario delle udienze” recita all’uopo l’ultimo capoverso del quarto comma dell’art. 441 bis c.p.c.. riproducendo sostanzialmente l’articolo 1, comma 65, legge 92/2012 che già imponeva di riservare particolari giorni nel calendario delle udienze alle cause introdotte con il rito Fornero. La norma non può che essere disaminata in combinato disposto con la disposizione di cui all’art. 144 quinquies delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile recante disposizioni di carattere organizzativo. Recita, infatti, testualmente il detto articolo: “Il Presidente di Sezione e il dirigente dell’ufficio giudiziario favoriscono e verificano la trattazione prioritaria dei procedimenti di cui al capo 1-bis del titolo IV del libro secondo del codice. In ciascun ufficio giudiziario sono effettuate estrazioni statistiche trimestrali che consentono di valutare la durata media dei processi di cui all’art. 441 -bis del codice, in confronto con la durata degli altri processi in materia di lavoro”. Tutto e tutti, dunque, sono chiamati ad assicurare quei principi di celerità e di concentrazione che per espresso dettato del medesimo articolo 441 bis permeano anche i giudizi di appello e di cassazione aventi ad oggetto le medesime controversie.
L’articolo 441 bis c.p.c., come si è detto, non è l’unica innovazione del D.Lgs. n. 149/2022. Di seguito, infatti, vi è l’art. 441 ter che disciplina il licenziamento del socio della cooperativa, argomento questo quanto mai spinoso in quanto oggetto di ripetute modifiche di legge e di orientamenti giurisprudenziali spesso estremamente contrastanti. La coesistenza in capo al socio-lavoratore di cooperativa di più rapporti contrattuali, ossia quello associativo e quello di lavoro, ha spesso ingenerato conflitto di competenza tra il Giudice del Lavoro ed il Tribunale delle Imprese sicchè occorreva indispensabilmente una norma chiarificatrice che regolamentasse la materia in maniera univoca. E’ così che il citato art. 441 ter c.p.c., in ossequio al famoso principio di unicità del rito, statuisce ora che “le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei licenziamenti dei soci delle cooperative sono assoggettate alle norme di cui agli articoli 409 e seguenti e, in tali casi, il giudice decide anche sulle questioni relative al rapporto associativo eventualmente proposte”. “Il giudice del lavoro –continua la disposizione- decide sul rapporto di lavoro e sul rapporto associativo, altresì, nei casi in cui la cessazione del rapporto di lavoro deriva dalla cessazione del rapporto associativo”.
Un ultimo sguardo all’art. 441 quater che disciplina il licenziamento discriminatorio prevedendo che le azioni di nullità dei licenziamenti discriminatori, ove non proposte con ricorso ai sensi dell’art. 414, possono essere introdotte, in presenza dei relativi presupposti, con i riti speciali previsti dagli artt. 38, D. Lgs. N. 198/2006 e D.lgs n. 150/2011, fermo restando il divieto della duplicazione dei giudizi. “La proposizione della domanda relativa alla nullità del licenziamento discriminatorio e alle sue conseguenze –recita infatti il citato art. 441 quater- nell’una o nell’altra forma, preclude la possibilità di agire successivamente in giudizio con rito diverso per quella stessa domanda”.
Giovi da ultimo un breve cenno alla possibilità ora introdotta di ricorrere, anche per le materie di cui all’art. 409 e segg. c.p.c., ad uno strumento deflattivo del contenzioso, prima appannaggio del solo processo civile, ossia la negoziazione assistita, con procedura del tutto facoltativa non costituendo condizione di procedibilità della domanda. Al riguardo non mancano i dubbiosi ossia chi, come chi scrive, ritiene sia abbastanza difficile che tale strumento possa determinare il decongestionamento delle sezioni lavoro considerato che nella quasi totalità dei casi, particolarmente nelle controversie di lavoro, forte ed incisiva è l’azione che gli Avvocati esperiscono da subito per tentare di addivenire il più velocemente possibile ad una composizione bonaria, proprio per la particolare urgenza dei diritti coinvolti, sicchè la facoltatività -che pure si condivide- è probabile che releghi la negoziazione a scelte in tal senso del tutto residuali. Foriera, poi, di contrastanti opinioni, anche la previsione della novella in virtù della quale l’assistenza alla parte per addivenire alla definizione di un accordo a tutti gli effetti equiparato alle conciliazioni in sede protetta e, quindi, costituente titolo esecutivo, possa esser prestata da un Avvocato o da un Consulente del lavoro, apparendo ai più la detta equiparazione professionale inconciliabile con il diverso percorso formativo dei Professionisti.
Ad ogni buon fine, come ogni Riforma, anche questa avrà bisogno dei suoi tempi sicchè sarà soltanto l’esperienza che si conseguirà nella fase operativa che potrà riferire della bontà o meno di ogni singola innovazione.
*Avvocato, Comitato di redazione Il Foro Vibonese
- Cfr. Cass. n. 2364/2020; Cass. n. 21720/2018; Cass. n. 27655/2017
- Cfr. Cass. ordinanza 04 gennaio 2022, n. 72; Cass. n. 14976/2020
- Cfr. Cass. Ordinanza 14 febbraio 2020, n. 3821; Cass. n. 27655 del 2017; Cass. n. 30443 del 2018