Lavoro e politiche del lavoro al tempo delle grandi transizioni: le sfide delle aree deboli

220 views 11:36 am 0 Comments Luglio 13, 2022

Antonio VISCOMI*

Sommario: 1. Il cuore antico di un futuro possibile. – 2. Riscoprire e rafforzare la logica dei patti. – 3. Per un approccio ecosistemico.

Il testo pubblicato raccoglie alcuni spunti di riflessioni che ho presentato ad un convegno su “Prossimità e generatività dei territori” organizzato dal CNEL in data 23 maggio 2022. Per parlare di lavoro e di politiche del lavoro, in genere e  nelle aree interne in particolare, c’è bisogno di un framework euristico e di un approccio realistico in grado di assicurare una necessaria visione di sistema, anzi, più precisamente, di una visione ecosistemica, segnata dalla consapevolezza che la relazione tra le parti concorre a definirne la stessa identità. Nei tempi incerti della grande transizione in cui siamo immersi – transizione digitale, ecologica, circolare e sociale – sembra opportuno che la pretesa regolativa del legislatore (e, a cascata, quella ancor più pericolosa degli apparati burocratici) ceda il passo ad una diversa capacità di attivazione delle risorse disponibili in campo. Ne danno conferma tutte le diverse ipotesi, sparse nell’ordinamento, di strumenti pattizi per conseguire gli obiettivi definiti dal legislatore. Riferito al diritto del lavoro, questo significa che è necessario ed urgente recuperare il ruolo delle parti sociali anche nella elaborazione di regole, differenziate per settori o territori se necessario, naturalmente impedendo che lo stesso ruolo possa trasformarsi in un continuo reciproco e defatigante potere di veto. Per questo abbiamo bisogno di un diritto del lavoro capace di promuovere il dialogo sociale e sostenere gli esiti negoziali, di riorientare le politiche del lavoro all’innovazione produttiva, di una pubblica amministrazione sempre più attenta alle competenze (al saper fare) e meno ancorata alla competenza (al poter fare). Un ecosistema, appunto, la cui costruzione richiede la partecipazione consapevole di tutti gli attori e la mobilitazione di tutte le energie disponibili, in una prospettiva di sussidiarietà, che per un giurista vuol dire essere e rimanere coerente con i valori della Costituzione.  

1. Il cuore antico di un futuro possibile. 

Il tema che mi è stato affidato presenta una intensità problematica tale da non poter essere compiutamente trattato nell’arco temporale, necessariamente breve, del mio intervento. Una riflessione metodologicamente ben fondata richiederebbe almeno di definire in via preliminare il perimetro significativo di ogni singolo significante incastonato nel titolo che mi è stato assegnato: dal lavoro e le sue politiche (che forse sarebbe opportuno declinare sempre al plurale), alla suggestiva e diffusa metafora della transizione come stigma della nostra strana epoca (segnata dall’attesa di un ignoto che molti hanno però già, in qualche modo, pensato di confinare – o esorcizzare – nell’idea di un new normal, di una nuova e ibrida normalità tanto rassicurante quanto in verità dal non elevato valore esplicativo), alla nozione stessa, questa sì, molto più impegnativa, di aree deboli o interne, tali in quanto la distanza fisica si tramuta in divario di cittadinanza e, quindi, in un gap delle stesse opportunità di sviluppo.

Condizioni, queste, che, a dire il vero, appaiono a volte poco congruenti con un’aura positiva che si vuole innervare nell’elogio della lentezza, nella riscoperta delle relazioni di prossimità, in una rinnovata complicità con la natura, in immediata contrapposizione con la fredda frenesia cittadina. Certo, è pur vero però che non è per nulla facile andare veloci quando mancano strade percorribili e non è neppure così difficile apprezzare la socialità fisica di un incontro quando non si hanno dorsali digitali funzionali alla iperconnessione social. La montagna potrà pure essere incantata, ma l’incanto – per non risultare mistificante e ideologico, nel senso proprio del termine – non può, non deve, velare le condizioni oggettive di marginalità. 

Proprio per questo, come sempre accade quando apocalittici ed integrati (e le tifoserie al seguito) si contendono il campo, a me pare invece buona norma ancorare ogni ragionamento alla complessità del reale, coniugando a tal fine la oggettiva consapevolezza delle condizioni esistenti – lasciando da parte, direbbe Franco Costabile, poeta calabrese, un cuore spesso troppo cantastorie – con una non meno chiara consapevolezza delle reali possibilità di valorizzazione ed innovazione che derivano da contesti e da condizioni in veloce trasformazione. E forse vale la pena ricordare al riguardo il suggerimento di chi lo sviluppo ha sempre fatto dipendere non tanto dalla ottimale combinazione di risorse e fattori di produzione, eventualmente articolata per fasi progressive secondo i ritmi ed i tempi di un modello idealtipico, quanto dalla capacità di richiamare ed arruolare per lo sviluppo risorse e capacità nascoste, disperse o male utilizzate. 

Più che di una nuova narrazione, le aree interne e deboli hanno dunque bisogno di un nuovo sguardo che sappia ricucire in una visione di sintesi il cuore antico ed un futuro possibile, anzi: il cuore antico di un futuro possibile. Sto citando, è chiaro, un po’ a modo mio, il titolo del libro scritto da Carlo Levi, che delle aree deboli ed interne meridionali è stato profondo ed involontario conoscitore, ma la suggestione letteraria è quanto mai propizia per evidenziare un elemento essenziale capace di condizionare – ab imis, come usa dire – ogni ragionamento anche sul lavoro e le sue politiche. 

Ritengo, ma ovviamente non solo il solo, che sia errato ragionare sulle tecniche e sulle politiche di promozione, sostegno e incentivazione del lavoro senza considerare in modo adeguato e pertinente i contesti produttivi ed organizzativi in cui quelle tecniche e quelle politiche sono chiamate ad operare. Al contempo, però, quegli stessi contesti non sono neutri, né potrebbero esserlo, ma rispondono ad una certa idea di sviluppo, ad un piano di azione industriale e, in definitiva, ad una visione, ad un modello di società o anche solo di comunità locale. E’ a motivo di questa concatenazione logica e cronologica che vale la pena ricordare il titolo del libro citato: il futuro delle aree interne non può che avere un cuore antico, non già nella claustrofobica prospettiva della conservazione museale ma in quella ben diversa delle radici profonde che danno vita e linfa al sempre nuovo sviluppo della pianta. 

Una certa idea di sviluppo possibile: di questa hanno bisogno le tante e diverse aree interne per poter tradurre le potenzialità locali in effettivo e durevole lavoro, sviluppando al massimo grado le opportunità derivanti dalle innovazioni recate dalla grande transizione – digitale, ecologica e circolare – in cui siamo immersi e che nel Pnrr trova oggi non solo e neppure tanto un veicolo di sostegno finanziario, ma ancor prima una cornice concettuale per tracciare il disegno di futuro delle nostre comunità. E non si tratta, sia chiaro, di sostituire ora un mezzo di produzione ad un altro, ma di cambiare il paradigma stesso di comprensione e trasformazione del mondo che ci circonda tenendo conto dell’usuale, ma oggi ancora più accentuata, correlazione tra riorganizzazione dei processi produttivi su base digitale e riassetto delle vite personali e collettive.    

Innovare nelle condizioni date, dunque, a partire dalle condizioni reali e secondo disegni realistici, ché alle ambiziose idee di sorti industriali magnifiche e progressive così come alla retorica della chiusura identitaria abbiamo già pagato un tributo fin troppo elevato.  

2. Riscoprire e rafforzare la logica dei patti. 

Certo, confesso di risentire, nelle mie stesse parole, l’eco di tanti ragionamenti che sono stati proposti nell’arco degli ultimi decenni, sempre alla ricerca di quel qualcosa in più in grado di intercettare e fermare il progressivo depauperamento di risorse, di opportunità, di possibilità delle e nelle aree interne e deboli. E quell’eco potrebbe anche indurre una sorta di accettazione fatalistica delle condizioni di marginalità, quasi fossimo inchiodati nelle stradine svuotate della Montegrano di Banfield. Ma sarebbe un errore grossolano, nella misura in cui trascura di considerare non solo l’evoluzione diacronica delle condizioni di sviluppo di territori e comunità ma anche le diversità sincroniche delle aree interne e deboli. Da Montegrano a Grumo Nevano molti passi sono stati fatti.

Per restare nella mia regione, la Calabria, l’area interna del Reventino, caratterizzata dalla presenza di industrie leader nazionali nei loro settori e da non comuni risorse naturali, non può certo essere equiparata all’area interna della zona grecanica, dalla lunga storia testimoniata appunto dall’arcaica lingua greca ancora parlata, ed entrambe non sono oggi quello che erano venti anni fa, anche se l’una è oggi molto avanti, qualunque indicatore si guardi, rispetto all’altra. 

Differenziare e specificare, dunque, è sempre buona norma per un ricercatore, ma lo è ancora di più per i policy makers se e nella misura in cui intendano preservare la loro azione istituzionale da una asfissiante pretesa regolativa capace di trasformarla, in definitiva, in un vincolo di sistema oneroso, defatigante e a volta anche mortificante per gli attori sociali.

In effetti, di tutti quei ragionamenti credo debba rimanere ancora ferma – ed anzi, a ben vedere, si è ormai diffusa pure in altri campi – l’idea che lo sviluppo debba essere endogeno e possa darsi soltanto mobilitando tutte le risorse localmente disponibili. E’ la comunità locale, nelle sue diverse articolazioni, ad essere – a dover essere – protagonista dello sviluppo locale. 

Era questa la logica dei “patti” avviati nella seconda metà degli anni ‘90 del secolo scorso e non solo in Italia, della quale conosciamo ormai in modo chiaro l’intera matrice dei punti di forza e di debolezza, delle opportunità e delle minacce. E abbiamo anche appreso quanto l’assenza di una visione veramente condivisa di sviluppo – la cui costruzione dovrebbe essere la missione propria della soggettività politica in quanto sintesi di interessi – possa trasformare la dimensione collettiva e comunitaria in una sommatoria di microinteressi individuali e in una sostanziale frantumazione e dispersione delle risorse disponibili. 

Eppure quella logica sembra trovare ora una rinnovata considerazione, tant’è che, dedicandosi ad una ricerca oltremodo superficiale, è possibile imbattersi in una congerie di strumenti pattizi, più o meno formalizzati:  patti locali per la lettura, patti educativi di comunità, patti territoriali per la transizione ecologica e digitale, patti regionali per il lavoro e il clima, patti per la rigenerazione dei sistemi produttivi locali, e poi, poco più risalenti nel tempo, patti formativi locali, patti per la sicurezza integrata, patti per il welfare territoriale, e senza poi dimenticare la sperimentazione dei patti di collaborazione per l’uso dei beni comuni. In questa stessa scia si colloca il decreto-legge 17 maggio 2022, n. 50 che introduce nel sistema ordinamentale i “Patti territoriali dell’alta formazione delle imprese”, strumenti pensati per promuovere l’interdisciplinarità dei corsi di studio e la formazione di profili professionali innovativi e altamente specializzati in grado di soddisfare i fabbisogni espressi dal mondo del lavoro e dalle filiere produttive nazionali e per migliorare e ampliare l’offerta formativa universitaria anche attraverso la sua integrazione con le correlate attività di ricerca, sviluppo e innovazione.

Insomma il c.d. “patto” come strumento declinato in contesti differenti e in perimetri territoriali circoscritti, destinato a definire obiettivi comuni a soggetti pubblici e privati e strategie condivise – anzi, più ancora, co-progettate – per raggiungerli. In questa prospettiva, lo strumento pattizio può agevolmente essere ricondotto agli schemi di governance dei processi di sviluppo, in quanto privilegia un percorso progressivo di formazione del consenso piuttosto che il ricorso a determinazioni d’autorità (temperando così il rischio di successivi atteggiamenti non collaborativi).

In una logica pattizia, infatti, il consenso nasce da una condivisione armonica della direzione di senso e non dall’esercizio dell’autorità. Più ancora esso nasce da una considerazione pertinente ed adeguata del principio di sussidiarietà che non può risolversi certo in un mero criterio manualistico di distribuzione delle competenze e dei poteri ma deve operare anche a stregua di direzione di senso dell’agire pubblico e collettivo nella promozione di una autonomia costituzionalmente fondata dei corpi sociali e dei livelli istituzionali. 

Al riguardo, tuttavia, è necessario evitare contrapposizioni manichee tra governance e government, e sottolineare invece che qualunque modello partecipativo – per quanto complesso e raffinato possa essere – deve operare, per poter produrre i risultati attesi, in funzione complementare e giammai sostitutiva della capacità di government degli apparati amministrativi, le cui risorse istituzionali – come l’esperienza concreta si è incaricata di testimoniare – sono essenziali per conseguire il risultato atteso, garantendone, ad esempio, la continuità nel tempo, inibendo comportamenti eventualmente opportunistici, assicurando la trasparenza delle decisioni assunte. 

Ciò che veramente importa è che gli stakeholder non siano considerati soltanto come portatori di interessi specifici, da controllare in modo occhiuto, ma anche, anzi direi: soprattutto, a stregua di portatori di competenze ed esperienze da ascoltare con attenzione consentendo anche all’autorità amministrativa e ai soggetti istituzionali di acquisire le informazioni migliori per delineare le policies di interesse. 

Se così non fosse, dovremmo semplicemente riconoscere finanche la sostanziale inutilità degli strumenti disegnati, ai vari livelli, al fine di valorizzare la partecipazione pubblica a fini deliberativi. Il patto locale – come per altri versi la deliberazione partecipata o il dibattito pubblico per le grandi opere – è molto di più di una conferenza di servizi proprio perché invoca, ma al contempo rigenera e rafforza, il capitale sociale di una comunità, non meno importante ai fini dello sviluppo locale, delle risorse finanziarie. Il contesto, in questo caso, è veramente più importante del testo: una visione condivisa di sviluppo locale è il presupposto necessario per poter parlare con sufficiente credibilità di lavoro e politiche del lavoro. 

3. Per un approccio ecosistemico.

L’importanza così assegnata al contesto (alle opportunità ed ai limiti dello stesso) e la necessità di tenere in debito conto strumenti di condivisione e di rigenerazione del capitale sociale determinano conseguenze rilevanti in materia di lavoro e di politiche del lavoro, rispetto ai quali è opportuno valorizzare le prospettive euristiche offerte dal concetto – ormai diffuso – di ecosistema, caratterizzato appunto dalle complesse funzioni di relazioni tra gli elementari che lo compongono. 

In siffatti contesti, il tratto di specificità è dato dagli intrecci e dalle relazioni fra le parti assai più che dalle parti stesse e l’innovazione – sociale, organizzativa, produttiva, regolativa – è generata proprio dal tipo e dalla natura della relazione fra le singole parti. In altri termini è la relazione, non le parti, a generare le caratteristiche dell’insieme ed è ancora la relazione stessa a definire (o ridefinire) l’identità e le funzioni delle parti. E questo vale anche per quell’elemento specifico del sistema che è dato dalla regolazione formale delle relazioni individuali e collettive di lavoro: anche il diritto del lavoro agisce all’interno di un ecosistema e non tenerne conto o pensarlo solo in una prospettiva ordinamentale genera pesanti conseguenze sulla stessa effettività della regolazione giuslavoristica. 

Consapevole della complessità del concetto stesso di ecosistema come paradigma euristico nelle scienze sociali, mi limito in questa sede a segnalare tre elementi che a mio avviso richiedono particolare attenzione se e quando si voglia focalizzare l’attenzione sulle questioni del lavoro nelle aree interne in una prospettiva ecosistemica.

Il primo punto da segnalare è che se l’ecosistema vive nella relazione, anzi è essenzialmente relazione, allora ne segue che gli strumenti di regolazione di atti ed attività degli attori, per essere opera viva, devono essere tali da assicurare una significativa apertura cognitiva. L’apertura cognitiva del sistema di regolazione, capace di rispettare al contempo la necessaria chiusura sistemica dell’ordinamento giuridico, altrimenti destinato a diventare mero imperativo sociologico, può ragionevolmente essere data dalla prospettiva che è stata definita del diritto mite il cui obiettivo primario è definire le regole per consentire agli attori di trovare le soluzioni possibili in un dato momento nella ricerca condivisa di un bene comune. Un ordinamento è mite quando non si risolve nel testo ma dialoga con il contesto, ricuce interessi differenti consentendo agli stessi di trovare una propria sintesi coerente con i valori dell’ordinamento medesimo. Nella cornice definita, spetta poi ai soggetti sociali disegnare il loro quadro. Per questo, non abbiamo bisogno né di un diritto mimetico, destinato a replicare l’andamento del mercato, sul presupposto – fallace – che il mercato abbia una propria razionalità che merita – sul piano politico – di essere trasformata in criterio di conformazione dell’intero assetto sociale, né di un diritto antagonista, animato dalla pretesa di trasformazione radicale per via di normazione che già da tempo ha manifestato i suoi limiti. 

Personalmente credo che proprio nelle fasi di transizioni come quella in cui siamo immersi è necessario che la hybris regolativa, la pretesa di onniscienza e onnipotenza del legislatore (e, a cascata, quella ancor più pericolosa degli apparati burocratici) debba cedere il passo ad una diversa capacità di attivazione delle risorse disponibili in campo. Per questo non abbiamo bisogno di meno diritto, ma piuttosto di un diritto migliore.

Riferito al diritto del lavoro, questo significa che – superata finalmente l’ora della disintermediazione, operazione, questa sì, veramente ideologica e poco conforme al valore costituzionale delle autonomie – è necessario ed urgente recuperare il ruolo delle parti sociali anche nella elaborazione di regole, differenziate per settori o territori se necessario, naturalmente impedendo che lo stesso ruolo possa trasformarsi in un continuo reciproco e defatigante potere di veto. Facile ovviamente a dirsi, più difficile a realizzarsi, se solo si guarda ad esempio alla perdurante difficoltà parlamentare di attribuire alla contrattazione collettiva la definizione delle causali del contratto a termine, o il tentativo di ingabbiare la naturale mobilità del lavoro da remoto con supporto tecnologico nelle regole tradizionali che disciplinano tempo e luogo di lavoro. 

Ciò di cui abbiamo ora bisogno è una nuova legislazione di sostegno dell’azione collettiva anche per accompagnare, riducendo lo spazio per comportamenti opportunistici, lo sforzo di innovazione necessario per lo sviluppo industriale dei territori e del paese. Che poi quest’ultimo possa darsi soltanto puntando alla qualità del processo e del prodotto, sostenuta da investimenti in ricerca e sviluppo, credo sia di tale evidenza da non dover neppure essere qui sottolineato, anche se a volte si ha l’impressione che non vi sia piena e diffusa consapevolezza del fatto che utilizzare la sola riduzione del costo del lavoro come prima leva di competitività potrà consentire forse alla singola impresa di sopravvivere nel breve termine ma nello stesso breve termine determinerà un arretramento complessivo del sistema. I dati sull’emigrazione ne danno immediata conferma. Così come quelli sui salari. 

Il secondo punto da evidenziare riguarda le politiche attive del lavoro, che nelle aree interne hanno spesso subito torsioni e distorsioni dall’essere state utilizzate sostanzialmente come politiche di sostegno e quasi una forma di ammortizzatore per crisi sociali altrimenti difficili da temperare. Peraltro, la situazione è stata resa ancora più confusa dall’ancoraggio sui centri dell’impiego e sugli strumenti di politica attiva degli strumenti di sostegno al reddito, strutturati a base familiare, sul presupposto, a mio avviso errato, che la povertà sia geneticamente collega alla mancanza di lavoro – laddove ormai ne è noto invece il carattere multifattoriale – con la impropria conseguenza di dirottare sui centri per l’impiego le situazioni che erano invece di primaria competenza dei servizi sociali. 

E’ proprio questa consapevolezza che mi induce a sottolineare la necessità che le politiche attive del lavoro siano ripensate non più solo come politiche a sostegno della ricollocazione professionale del disoccupato o inoccupato, ma come politiche anche a sostegno dello sviluppo produttivo e innovativo dell’intero sistema e siano quindi orientate ad accompagnare la formazione di competenze e professionalità necessarie per affrontare le sfide della transizione digitale, della riconversione ecologica, dell’economia circolare. Anche nelle aree interne. E’ possibile, ma è necessario rinunciare al clientelismo politico che nel mezzogiorno si è generalmente annidato in queste sacche di disagio personale e professionale. Ancora una volta, dunque, non sembra possibile parlare di politiche del lavoro se non in correlazione stringente con le politiche industriali e quindi con una certa idea di sviluppo locale. Penso ancora alla mia regione, dove di fronte agli effetti della grande crisi finanziaria del decesso scorso, i percettori di mobilità in deroga sono stati principalmente destinati come tirocinanti nelle amministrazioni pubbliche, con ovvie aspettative di stabilizzazione allo stato ancora deluse, laddove forse piani aggregati di sviluppo locale basati sulle risorse naturali e culturali della regione, accompagnati da adeguati investimenti in politiche di formazione, avrebbe potuto generare un più reale valore di sistema.

Il terzo ed ultimo punto che vorrei sottolineare è che le aree interne e deboli portano generalmente il peso di una storia amministrativa incentrata sull’ente comunale e di una storia sociale contrassegnata dall’emigrazione. La conseguenza è che oggi siamo di fronte ad una quantità significativa di piccoli comuni con pochi abitanti e con molto territorio, in guisa tale che la desertificazione demografica si accompagna anche ad una minore cura per ampie porzioni del territorio stesso, con tutte le conseguenze che si possono immaginare sulla tenuta dell’assetto idrogeologico. A fronte di ciò, credo che sia necessario prendere, anzi riprendere sul serio la questione della geografia amministrativa nel nostro paese. Sempre per restare alla mia regione, su 404 comuni, 223, più della metà, hanno meno di tremila abitanti. Con molta franchezza, non credo che comuni di tal fatta siano in grado di gestire procedure importanti e impegnative come quelle disegnate dal Pnrr. Ma non sono nemmeno in grado di affrontare le questioni dell’assetto idrogeologico, della mobilità, dei piani urbanistici, e così via. In altri termini, i problemi che i comuni hanno oggi di fronte e con cui sono chiamati a confrontarsi, hanno un livello di complessità tale che non può essere affrontato a livello di singolo comune, ma semmai di comprensorio, distretto, ambito. Per questo ritengo sia il caso di intervenire in maniera più significativa e perentoria sui processi di riorganizzazione degli enti locali, nella consapevolezza che ripensare i perimetri amministrativi dell’azione di un comune è necessario per promuovere e tutelare le comunità locali stesse, in termini di servizi resi e di risposta ai problemi quotidiani.

Insomma, per parlare di lavoro e di politiche del lavoro nelle aree interne abbiamo bisogno di un framework euristico e di un approccio realistico in grado di assicurare una necessaria visione di sistema, ma nella consapevolezza che la relazione tra le parti definisce le parti stesse che compongono il sistema. Per questo abbiamo bisogno di un diritto mite capace di promuovere il dialogo sociale e sostenere gli esiti negoziali, di riorientare le politiche del lavoro all’innovazione produttiva, di una pubblica amministrazione sempre più attenta alle competenze (al saper fare) e meno ancorata alla competenza (al poter fare), Un ecosistema, appunto, la cui costruzione richiede la partecipazione consapevole di tutti gli attori e la mobilitazione di tutte le energie disponibili, in una prospettiva di sussidiarietà, che per un giurista vuol dire essere e rimanere coerente con i valori della Costituzione.  

*Senatore della Repubblica, Ordinario di diritto del Lavoro all’Università Magna Graecia CZ; Comitato scientifico Il Foro Vibonese

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