Pietro Proto*
“Metafisica è il domandare oltre l’ente, per ritornare a comprenderlo come tale e nella sua totalità … Inoltre in ogni domanda metafisica l’esserci che domanda è sempre coinvolto nella domanda.”
(M. Heidegger, Che cos’è metafisica?)
“Le dee esistono proprio in questo loro negarsi. All’inesausto interrogare di Edipo è imposto il silenzio: non ci sarà assoluzione, non ci sarà condanna. Non ci sarà giudizio: non si può ridurre la teologia a teodicea. Ma è il coro, … a risospingere Edipo ai margini del bosco, fuori del temenos, che, come templum, è “il luogo tagliato”, cioè escluso dalla realtà quotidiana e non soggetto alle sue leggi …
I vecchi di Colono, per il momento, gli consentono di posarsi su una roccia, una sorta di tribuna da cui potrà sostenere la la propria causa, ma seduto in bilico sull’orlo della pietra, sul limite fra sacro e
profano, sospeso come chi si accinga a varcare la soglia fra le due realtà.”.
(D. Citton, Cercare Dio nel Bosco di Colono)
SOMMARIO: 1.- Premessa introduttiva metodologica; 2.- L’accertamento degli enunciati fattuali; Il “chi unico”; L’“in-quanto” esistenzial-ermeneutico e l’“in-quanto apofantico”; 2.1.- Segue: L’accertamento del diritto alla interruzione dell’alimentazione ed idratazione medicalmente assistita: la norma eutanasica. L’accertamento del consenso e sul presidio sanitario; 3.- Inquadramento epistemologico del fenomeno: finalità e limiti del processo; 4.- L’etica come guida interpretativa. La mitopoiesi; 5.- Il contraddittorio e il “giusto rito processuale”; 6.- Un’istanza (dal o di diritto) “per il diritto” di un “chi unico” troppo “unico”; 7.- La Cassazione tra diritto vivente e scuola del diritto libero: un nuovo giusnaturalismo?
- Premessa
Non è una nota a sentenza[1], piuttosto un ragionamento intorno alla stessa. Qui la sentenza funge da presupposto; un pretesto per affrontare ed approfondire il fenomeno del “nichilismo (giuridizionale) applicativo o attuativo” come definito in un precedente lavoro[2]; un tema che mi incute “timore e tremore”3[3] e tuttavia mi attrae. Ma, vuole essere anche un modo diverso di leggere la decisione in quanto decisione, come qualsiasi decisione. Leggere come raccogliere-raccogliersi e di rapportarsi ad essa[4]; coglierne il senso[5]. La vicenda Englaro è nota e sarebbe tedioso ripeterla[6]. Con umiltà e consapevolezza dei miei limiti a fronte di argomenti di siffatta portata, cercherò di affrontare gli aspetti processuali relativi al “come” e al “perché” della decisione e di quella decisione in particolare. Se e quanto essa possa considerarsi espressione di un “diritto giusto”. Oppure, se quella sentenza costituisca il paradigma di una concezione del processo che si annulla nella premessa presupposizionale: la necessarietà e strumentalità rispetto al diritto sostanziale.
Degli aspetti di quest’ultimo mi occuperò solo in quanto correlativi e funzionali agli aspetti processuali.
Il riferimento unico e costante sarà il dato positivo a costo di affermazioni scomode e non condivise da quella parte della dottrina che, attestata su posizioni ideologiche ed etiche e/o bio-etiche fondate sul determinismo scientifico, ha sostenuto ed avallato soluzioni interpretative delle norme processuali, costituzionali e ordinarie, non senza emotive ed inavvertite contraddizioni[7].
Non intendo esprimere giudizi etici o morali sulla vicenda umana, come altrettanto sul pluralismo culturale che reputo un valore aggiunto diversamente, invece, dalle visioni nichiliste della modernità[8].
Mi chiedo, se la vicenda processuale sia o meno il risultato finale di una adesione ad una delle impostazioni filosofico-gnoseologiche sostenute all’interno di una determinata collettività, oppure se in essa è dato rinvenire quei criteri di verità, idonei a suffragare il passaggio inferenziale dalle asserzioni concernenti i dati gnoseologici portati in giudizio all’enunciato finale integrativo della ricostruzione fattuale. Non ho risposte da dare, ma vorrei offrire uno spazio di discussione.
Gli interrogativi riguardano il rapporto tra il giudice e la Legge, l’interpretazione e la qualità della produzione della regola “nuova” che da essa viene creata ed ancora il rapporto tra diritto e società e tra processo e società. Il nesso tra interprete e legge[9]: da un lato la società moderna con le sue contraddizioni ed i suoi continui bisogni che la legislazione fa fatica a recepire e a dare risposte con ricadute sulla sovranità e sulla competenza nell’autodeterminarsi a decidere sui valori; dall’altro il limite di intervento della giurisdizione nella ricerca della “giusta soluzione del caso”[10].
Non può ignorarsi che la sovranità del moderno stato liberale o neo-liberista è “guidata” e condizionata da sistemi funzionali dominanti dei mercati e della finanza[11]. La proliferazione di riti differenziati per la tutela di diritti o interessi particolari e alternativi a quello ordinario di cognizione, ormai relegato ad una funzione residuale, ne costituisce un adeguamento processuale[12]. La destrutturazione del processo è il risultato funzionale di una globalizzazione dei mercati e dell’economia che segna il passaggio dal paridgma normativo del “government” a quello della “governance”[13]. Il processo (civile) è visto come un ostacolo, un intralcio, alla liquidità dell’economia mercantile[14]:meglio sarebbe “aggiustare” le controversie – che un apparato burocratico efficiente dovrebbe ridurre al minimo – de-giurisdizionalizzandole ricorrendo a sistemi a-processuali di sostituzione degli ingranaggi difettosi[15].
La miopia del legislatore verso istanze avvertite nella comunità sociale hanno fatto risorgere l’idea di un giusnaturalismo con un giudice dei diritti umani che invece di mediare tra il generale ed il particolare media tra opposte rappresentazioni del generale[16].
Seguono alcuni problematici interrogativi: un primo riguarda la legittimità della funzione giurisdizionale di fronte a materie che non trovano risposta sul piano legislativo ed i limiti di tale funzione che, nell’attività di interpretazione ed applicazione della regola di diritto al caso singolo, deve esprimere un valore universale[17]; un secondo afferisce al tentativo di giurisdizionalizzazione di qualsiasi accadimento del mondo e al riposizionamento dei rapporti e dei livelli di sovranità tra comunità sociale e giurisdizione; un terzo si riferisce alle finalità e ai limiti del processo nella nuova moderntà antifondazionista che nasce come secolarizzazione e costruisce il diritto come artificio a cui si affiancano forme di riesumazione del diritto naturale[18]. A questo e ad altri interrogativi, senza alcuna pretesa di esaustività, sarà dedicata la presente riflessione.
2.- L’accertamento degli enunciati fattuali. Il “chi unico”. L’“in-quanto” esistenzial-ermeneutico e l’“in-quanto” apofantico.
Enunciato, di per sé, innanzitutto significa di-mostrazione, “giudizio” nel senso di comunicazione all’esterno di ciò che è già dischiuso o circospettivamente svelato nel comprendere: l’ “in-quanto” della proposizione[19].
L’enunciato dell’“in-quanto” esistenzial-ermeneutico fissa lo “stato dei fatti” e ciò, nel processo giuridico, implica la percezione-comprensione dei fatti nel loro accadimento-accaduto. Vengono in rilievo le nozioni di strumenti come il rito processuale, il contraddittorio, i mezzi istruttori, le prove, attraverso e mediante i quali si effettua lo svelamento-comprensione e appropriazione del compreso: l’enunciato come di-mostrazione.
La prova è uno strumento conoscitivo per stabilire se un enunciato fattuale sia vero o falso[20]. Essa è l’attestazione dimostrativa che un fatto sia avvenuto oppure no, che sia avvenuto in un certo modo. Oggetto della prova non è il fatto, ma la rappresentazione-verificazione del suo avvenimento o meno o in che modo sia avvenuto. Il fatto in quanto tale, esiste o non esiste di per sé. La prova è la verificazione ex post del suo essersi verificato. La prova è tale se l’“in-quanto” della particella “se”, che designa l’incertezza dell’enunciato fattuale e/o la sua chiusura non ancora svelata, dischiusa, e che è costitutiva del comprendere ciò che va dimostrato, assume nel caso della determinazione la funzione di rimuovere l’originaria incertezza o chiusura di ciò che può venire dischiuso nel compredere e si articola nella spiegazione.
La prova o le prove, servono per fornire al giudice la rappresentazione di una realtà che non è più, ma è risalente nel tempo.
Tale esigenza processuale implica alcune condizioni: l’allegazione del fatto o dei fatti che costituiscono inscindibile principio della domanda e alla quale allegazione il giudice è estraneo; la obiettiva incertezza dei fatti, ovvero, la contestazione degli stessi dalla controparte; la rilevanza e decisività dei fatti.
Costituiscono, altresì, materiale di allegazione in giudizio situazione di fatto che si protraggono nel tempo e sono in atto al momento della proposizione della domanda giudiziale e su cui questa ultima si fonda[21] (come può essere appunto lo SVP). In tali casi non è necessario ricorrere al mezzo o alla fonte di prova essendo ben più incisivi i poteri del giudice al quale spetta la percezione diretta nel contraddittorio delle parti.
La scelta del (giusto) rito processuale influisce direttamente sull’accertamento della situazione sostanziale posta a fondamento della pretesa giudiziale. I vari riti (processuali) non sono liberalmente intercambiabili, nel senso che uno vale l’altro, ma ciascuno è in rapporto di “corrispondenza” con la situazione soggettiva dedotta, cosicchè la scelta del giusto rito, produttiva di senso e rispondente a criteri di razionalità, è funzionale alla realizzazione del “giusto processo”. La locuzione costituzionale di cui all’art. 25 “giudice naturale precostituito per legge” risponde anche all’esigenza di assicurare una corrispondenza-concordanza tra il rito e la situazione sostanziale[22]. Per “giudice naturale” deve intendersi, altresì, sul piano semantico e di senso anche il “luogo” del giudizio; “luogo” come spazio nel quale avviene e si compie la comprensione-interpretazione di quella situazione portata dall’istanza. Luogo terzo che deve garantire la terzietà del giudice. La disciplina del rito (processuale) è il luogo, lo spazio ermeneutico nell’ambito del quale origina la decisione.
Dal giusto rito processuale dipende la corretta instaurazione del contraddittorio in condizioni di parità (art. 111 Cost.) e il contraddittorio, a sua volta, nella sua esplicazione dinamica, è l’elemento fondamentale nel quale e mediante il quale si forma la prova. Senza contraddittorio non vi è prova, ma tutt’al più una fonte di prova. E’ nel contraddittorio che la prova si oggettivizza e spiega effetti dimostrativi e semantici. Essa – parte del patrimonio gnoseologico acquisito durante il procedimento – diviene postulato assertivo per affermare che un fatto sia avvenuto o meno; che sia avvenuto in un certo modo e non in un altro. E’ la fonte principale e basilare del convincimento, inteso, in senso etimologico ed epistemologico, come vincere insieme.
Il vincere insieme è frutto di un confronto linguistico che viene effettuato tra due “chi unico” o tra più “chi unico” o “chi unico collettivo” portatori di senso e di diversi o contrapposti asserti descrittivi della realtà[23].
La prova, quindi, è caratterizzata da un “nesso inscindibile” con il giudizio e da un legame indissolubile con la verità[24]. I testimoni indicati da una sola parte: da un unico “chi unico”; i capitoli di prova o le circostanze rappresentative indicate da un solo “chi unico”; possono considerarsi idonei alla formazione della prova? L’accertamento dell’esistenza o meno di un valido consenso a porre termine alla vita può ritenersi legittimamente accertato secondo criteri di verità come “corrispondenza” alla realtà in mancanza di allegazioni e produzioni di mezzi istruttori contrapposti[25]?
Un solo “chi unico” o “unico chi unico”[26] indica solamente i mezzi istruttori a sé convenienti ed esclude quelli sfavorevoli o solo dubbi. L’“in-quanto” della spiegazione comprendente è privato del suo oggetto, della stessa possibilità di svelarsi attraverso il conoscere-comprendere e di comunicare. La particella “se” rimane priva di inspectio, di verificazione, e l’“in-quanto” resta quello della prospettazione originaria, senza alcuna nuova schiusura o svelamento. Esso si avvicina, in tal modo, notevolmente all’“in-quanto” apofantico là dove l’affermazione (vera o falsa, positiva o negativa) è tale sin dall’origine. Si potrebbe parlare in questo caso di “autoevidenza assiomatica”.
In presenza di un vero contraddittorio tra contrapposti “chi unico” ciascuno indica i propri testi e alla fine in base a valutazioni di attendibilità, coerenza e logicità delle rispettive risultanze il giudice trae il proprio convincimento, nel senso proprio di con-vincere sulla base di enunciati con valenza obiettiva e validità universale.
Partendo da tali premesse si può ora procedere alla disamina delle tematiche suggerite dalla decisione.
2.1.- Segue: L’accertamento del diritto alla interruzione dell’alimentazione ed idratazione medicalmente assistita: la norma eutanasica. L’accertamento del consenso e sul presidio sanitario
Davide chiese ancora al giovane che gli portava le notizie: “come sai che sono morti Saul e suo figlio
Gionata?” … “Ero capitato per caso sul monte Gelboe ed ecco vidi Saul appoggiato alla lancia, serrato tra carri e cavalieri”…”mi disse: gettati contro di me e uccidimi”…”io gli fui sopra e lo uccisi, perché capivo che non sarebbe sopravvissuto alla sua caduta” …“Davide chiamò uno dei suoi giovani e gli disse: accostati e ammazzalo”…”“Egli lo colpì subito e quegli morì.”. (2Sam, 1. 5/10. 14/15.)
Esiste, nel nostro ordinamento positivo, il diritto di morire?
La tematica del c.d. diritto di morire esula dall’economia del presente lavoro e pertanto si rinvia alla letteratura specialistica in materia[27]. Qui interessa sul piano istruttorio-processuale, l’accertamento dell’esistenza della norma ordinamentale che ne sancisce il diritto e del consenso alla interruzione del sistema di alimentazione ed idratazione eteronoma[28].
La sentenza – come si è detto e ripetuto in dottrina[29] – individua il diritto di autodeterminazione nelle disposizioni costituzionali di cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost. e 8 CEDU e fin qui nulla quaestio. Il problema insorge quando si inserice il discorso del consenso informato attesa la situazione particolare di un soggetto che, per il suo stato VP, non poteva essere informato, né poteva prestare consenso[30].
La sentenza dopo aver ben detto che il tutore decide con l’incapace, conferendo alla dizione “il tutore ha cura della persona”, di cui all’art. 357 c.c., una portata più ampia rispetto all’ambito strettamente patrimoniale, pone il tutore medesimo nella condizione di interloquire coi medici nel migliore interesse “best interest” per l’incapace[31]. Ma in tutto questo il Curatore speciale che ruolo ha svolto ? Né Corte si è data carico di affrontare il conflitto tra la tesi da essa sostenuta e le disposizioni menzionate di cui agli artt. 5 c.c., 50, 579 e 580 c.p., anche in relazione agli artt. 357 e 424 c.c., che costituiscono principi ordinamentali di sbarramento, soprattutto in mancanza di una norma espressa che, in deroga alle precitate normative, autorizzi il tutore o il curatore ad esprimere il consenso di fine vita e a legittimare l’intervento del terzo (il medico)[32]. Ma, cosa significa che il tutore decide con l’incapace. Il mio pensiero, che, tutto sommato, ritengo vicino ai criteri guida indicati dalla Cassazione, parte dalla premessa della “unicità insostituibile della singolarità dell’essere, esser-ci, legato indissolubilmente alla responsabilità; il derridiano “io” responsabile che non si nasconde, ma si confronta con la morte o il nulla[33]. Il problema, sul piano istruttorio-processuale, non è di poco momento avuto riguardo a quei soggetti ab origine incapaci di intendere e volere come i cerebrolesi, ovvero quei soggetti, che si trovino in istato vegetativo dalla nascita. Mentre per i soggetti che cadono in siffatto stato, come nella vicenda in argomento, sarebbe possibile aver espresso il consenso e forse, sottolineo “forse”, il problema potrebbe trovare soluzione sul piano della prova, per quelli incapaci dalla nascita non ci potrebbe essere alcuna prova del consenso perché mai avrebbero potuto esprimerlo.
La unicità singolare dell’essere, esser-ci in quanto persona dischiusa presso il mondo, a causa di un suo stato di incapacità temporanea o definitiva, subisce una sospensione “esistentiva” del suo essere esser-ci che è al contempo una sospensione della responsabilità perché sospensione del processo di disvelamento. Questa sospensione colpisce l’essere nel suo dischiudersi nel mondo e quindi il suo comprendersi e comprendere[34]. Di qui la necessità che il tutore faccia sì che l’essere non dischiuso o per il quale è sospeso il disvelamento, si schiuda. L’istruzione probatoria dal canto suo deve mirare proprio all’accertamento del verificarsi di tale movimento.
Distinguendo tra beni personali e beni patrimoniali per questi ultimi il problema non si pone perché l’ufficio tutorio si risolve nell’amministrazione, gestione e cura di oggetti materialmente individuati e del tutto separati e distinti dalla persona del titolare; per i primi la questione si complica essendo detti beni un tutt’uno con l’essere nella sua unicità insostituibile e nella sua singolarità ed irripetibilità. Un bravo amministratore potrebbe senz’altro gestire i miei beni, la mia ricchezza o la mia economia che dir si voglia molto meglio di me, sostituendosi a me o insieme con me. I miei beni personali – che costituiscono la mia persona e si identificano con essa – riguardano il pensiero, le idee, i gusti, le inclinazioni, le passioni, i sogni, insomma il mio “io” con “Io”, in poche parole, la mia tonalità affettiva totale che esprime il mio modo di essere, di sentire, di trovarmi. Essi pertanto non sono “incorporabili” o “innestabili” in un altro da me, genitore o tutore che sia.
Nessuno può amare o odiare al posto di un altro.
E tuttavia si potrebbe obiettare che, non tanto il minore sul quale andrebbe fatta una digressione a parte, quanto il cerebroleso viene accudito e curato dai genitori o da un tutore o comunque da terze persone che provvedono a lui e per lui. Non è così. Ma questo è il punto.
Il soggetto che non interagisce, non si relazione, non si rapporta, in modo esplicito, viene accudito, curato, ma per le sue sole necessità materiali, non per quanto riguarda il suo essere, il suo se stesso, il suo in-essere o esser-ci nel mondo.
A furia di prove e di tentativi si può arrivare a capire quale minestra preferisce, quale bevanda, quale medicina rifiuta, esattamente come la madre con il neonato o il bambino, fermo restando che il gusto e la scelta rimangono sensibilità esclusivamente sue; come rimangono suoi i pensieri, le idee, i sogni, il caldo, il freddo, le affettività e tutto ciò che sente e non riesce ad esprimere, nella misura in cui sente, ma questo non si può sapere.
E allora, cosa vuol dire che il tutore decide con l’incapace; quest’ultimo inteso in senso lato ed omnicomprensivo. Potrebbe voler dire che, in ciascuno di tutti i livelli possibili di manifestazioni relazionali, tra tutore ed incapace, deve esserci, nel rispetto dell’altro da sé, una sintonia, una empatia; significa costituire un con-esser-ci. Il tutore deve saper intercettare il segnale o i segnali, che ai possibili vari livelli di manifestazioni relazionali, l’incapace lancia ed instaurare con questi una sorta di assonanza linguistico-esistenziale, stabilire, appunto, un con esser-ci, esser-ci con.
Il tutore deve con un’operazione socratica cogliere dalla indeterminazione del silenzio o del linguaggio latente il segno significante nella sua sostanza immediata e la comprensione del segno sognificativo è il momento del passaggio dal segno stesso al significato. Ma è indispensabile che il tutore parli la medesima lingua dell’incapace, dell’insano, del folle[35].
Diversamente, aggiungo, se oggetto del contendere è la vita di una persona, senza la sua partecipazione responsabile attiva e fattiva, da persona-soggetto degrada ad oggetto: la fine della vita dell’essere-persona e l’essere-persona stessa diventa un tutt’uno e viene assorbito nell’oggetto del contendere, diventa oggetto del giudizio.
La prova di tutto ciò deve essere di estremo rigore tecnico-scientifico[36]. L’accertamento riguarda la volontà dell’incapace, nel linguaggio raccolto dal tutore, che non sia il risultato di una proiezione dei sentimenti, dei desideri, delle aspirazioni e delle volontà del tutore medesimo; che non sia una volontà non riconducibile ad un linguaggio latente dell’incapace. Ma tutto questo può servire per accertare la volontà di rifiutare una terapia medico-sanitaria o una certa cura invasiva o un intervento diagnostico invasivo o terapeutico invasivo, ma di sicuro non per accertare un consenso a porre fine alla vita[37].
La Corte ricostruisce il consenso sulla base di informazioni provenienti da amici della Englaro secondo i quali, la medesima, in un’occasione in cui un comune amico si sarebbe trovato in una condizione simile a quella poi a lei accaduta, avrebbe detto di preferire la morte.
Tale enunciato non può ritenersi una prova vera e propria perché – come più sopra detto – non si è formata nel contraddittorio: i testi sono stati indicati da una sola parte, da un unico “chi unico”, senza possibilità di prova contraria; l’audizione dei medesimi è avvenuta sempre e solo al cospetto di un medesimo unico “chi unico”. Inoltre, il consenso, soprattutto di chi non può smentire, né confermare, non può rinvenirsi da indizi o presunzioni, attesa la estrema gravità delle conseguenze e l’alta responsabilità che esso comporta sia per chi lo esterna che per chi deve darne esecuzione[38]. Ma più che di consenso presunto, sembrerebbe l’esternazione di un’idea, un pensiero, dettato dal particolare momento, magari non privo di suggestione psicologica[39]. L’assenza di contraddittorio nella raccolta della prova e segnatamente nella escussione dei testi porta il giudice a coinvolgersi nell’operazione o processo rappresentativo delle deposizioni mettendo a rischio la sua terzietà e la sua neutralità non solo in ordine all’attendibilità oggettiva e soggettiva delle dichiarazioni, ma anche in ordine all’oggetto delle stesse. L’assenza di contraddittorio e di una controprova fanno sì che il convincimento venga condizionato alla base in quanto viene meno la valutazione critica, la quale, appunto si ha, quando il giudice rimane distaccato dal processo formativo della prova[40]. L’ “in-quanto” originario della prospettazione enunciativa di partenza non ha subito alcuna modificazione, nessuna dischiusura o svelamento comprendente nella funzione di appropriazione del compreso. E’ un “in-quanto” apofantico. Lo stesso dicasi per la ricostruzione dello stile di vita che, peraltro, è sempre quello rappresentato da terze persone come da loro percepito e indicate da un solo “chi unico”.
Sulla disattivazione del “presidio sanitario” riferito al sondino nasogastrico, la sentenza dopo aver acriticamente e per assioma decretato che costituisce senza dubbio un trattamento sanitario, dette la regola del quando e del come disattivarlo.
Intanto occorreva accertare se il sondino nasogastrico avesse o meno funzione terapeutica o se, invece, fosse solamente un sistema di alimentazione assistita o se a questa ultima sia possibile conferirle funzione terapeutica[41]. Il che, secondo criteri di senso comune, mi sembra alquanto difficile anche perché, se così fosse, l’alimentazione del cerebroleso dalla nascita – indipendentemente dalle modalità di somministrazione – sarebbe da considerare terapia e quindi secondo il ragionamento seguito si potrebbe staccare o interrompere fin da subito col solo consenso genitoriale o del tutore[42].
La differenza qui rileva perché nel secondo caso, ovvero di mera funzione di alimentazione, si pone un problema di compatibilità con le disposizioni ex artt. 579 e 580 c.p. ove si è in presenza di un consenso espresso o accertato, attesa la necessità dell’intervento del terzo: un conto è il rifiuto legittimo delle cure; altro è l’interruzione dell’alimentazione e/o comunque di sostegni vitali la cui interruzione porta a morte certa come per la mancata alimentazione del neonato[43]. In mancanza di consenso sarebbe omicidio ai sensi dell’art. 575 c.p.
Di fronte all’incertezza della comunità scientifica sulla natura dell’alimentazione ed idratazione forzata, come può il giudice decidere, tra le diverse opzione, per una di esse non considerando il fattore alimentare in sé a prescindere dalle modalità di somministrazione soprattutto nel caso in parola laddove la paziente non versava in istato terminale e non era in fin di vita[44].
3.- Inquadramento epistemologico del fenomeno: finalità e limiti del processo.
Le rapide trasformazioni del mondo grazie a potenti e sofisticate tecnologie nell’epoca della “morte di Dio” che ha disvelato la finitezza dell’uomo ma anche un allargamento degli orizzonti di libertà ingenerano di continuo bisogni e voglie un tempo impensabili ai quali la lentezza decisionale dei Parlamenti segna il passo e provoca delusioni.
Ma il ritardo legislativo può essere colmato da decisioni prese di volta in volta per casi singoli soprattutto in materie nelle quali, come nella specie o in altre simili, è necessaria una generale condivisione? E’ legittimo, in nome di un novello o riesumato giusnaturalismo – non solo e non tanto la sovrapposizione dei ruoli e delle funzioni o il loro reciproco sconfinamento – rimettere al giudice la mediazione tra opposte rappresentazioni del generale? Il processo può diventare il luogo dove qualsiasi “io” tenta di trovare risposte ad ogni propria delusione di aspettative di un diritto non dato o che ancora non c’è?
Quest’ultimo interrogativo produce altre problematiche domande: ogni delusione di aspettative dà luogo a un diritto? Ammesso che sia così chi è che deve stabilirlo? Può essere il giudice-mediatore ad occuparsi dell’aspetto valutativo dei fattori evidenzianti rimettendo al suo totale apprezzamento soggettivo qualsiasi interpretazione del mondo?
Mi domando se questioni attinenti la vita e la morte o più in generale che investono la bio-etica si possono rimettere al totale apprezzamento del giudice senza un predicato legislativo che stabilisca o meglio rispecchi il comune sentire: una legge che sia lo specchio della comunità e nella quale questa ultima si riflette.
Senza un quadro legislativo di riferimento non si corre il rischio di chiedere la stessa sorte di Eluana Englaro per qualsiasi altro essere non più autonomo o autosufficiente per qualsiasi minorazione psico-fisica[45]?
E non c’è forse il rischio che nel sistema funzionale dei mercati l’essere ridotto ad ente bio-macchinale possa essere rottamato ogni qualvolta per ragioni di età o di “handicap” psico-fisico non sia o abbia cessato di essere funzionale al sistema produttivo e costituisca un costo per la famiglia o per la società[46]?
Se ad ognuno di tali interrogativi, qualora venissero tradotti in istanze giudiziarie, se la giurisdizione dovesse dare comunque una risposta, mi domando quale sarebbe e, a seconda di essa, come dovrebbe intendersi la giurisdizione e infine la giustizia: non più una proiezione ortoganale della legislazione nella vita effettiva del diritto[47], ma piuttosto la ripetizione moderna della supplica al sovrano sul piano formale ed una sorta di novella “Rupe Tarpea” su quello sostanziale[48]. Una sorta di giurisdizione darwiniana.
Non senza trascurare ricadute fondamentali sul piano politico-democratico con la candidatura di una elite tecnica in luogo del luogo della sovranità popolare[49].
La sovrapposizione di diritto e giustizia dà luogo ad una ricorrente contaminazione del pensiero giuridico con il pensiero generale che contribuisce allo sviluppo autopoietico dello stesso senso nucleare incorporato nel diritto[50].
La “misura” che si incorpora nella legge ha in generale a che fare con l’orizzonte di senso della intera società. L’orizzonte di senso è l’oggetto del pensiero generale in un’epoca data e incorpora il senso nucleare nel quale si articolano i processi relazionali di tutti i sistemi parziali della società[51]. Si potrebbe dire un “in-quanto” ontologico-socio-esistenziale.
Per il nichilismo giuridico, invece, l’agire degli uomini, non è espressione di una scelta finalistica[52], pertanto ogni discorso su giusto/ingiusto diventa indifferente o secondario[53].
Secondo il modello Kelseniano la sentenza come la legge è un contenitore e il dispositivo o la statuizione un fenomeno secondario[54].
Assume rilievo la correttezza del procedimento dal quale origina la sentenza e dal quale essa trae la sua validità[55], mentre il suo contenuto diviene un fenomeno secondario e le qualificazioni di “giusto” e “non giusto”, “ragione o torto” diventano anch’essi secondari, svuotati e sostituiti dal “legale” e “non legale”[56]. I poli del “giusto” e “non-giusto” rinviano al “sè-stesso” nell’interezza della sua personalità ed imputabilità giuridica[57]. Sul terreno processuale la pretesa giuridica viene esercitata da un parlante singolare, un “chi unico” nei confronti di un altro “chi unico” esposta nel linguaggio ad un terzo chiamato a decidere[58]. La pretesa rivolta da un parlante direttamente al (terzo) giudice, senza convenire o rivolgere la medesima ad un altro parlante non vale ad instaurare un processo se, questo, deve continuarsi a considerare triale.
La scelta di un rito (processuale) al posto di un altro non è, come dovrebbe essere, la diretta conseguenza del diritto sostanziale dedotto. Il processo assume una connotazione neutrale, a-tetica e a-tematica. Viene inteso come strumento funzionale a qualsiasi decisione, sicchè i vari procedimenti e modi di tutela diventano indifferenti alla natura degli interessi e dei diritti in gioco o che si intendono tutelare. La indifferenza della scelta del rito ricade inevitabilmente sull’accertamento della esistenza o meno del diritto sostanziale[59].
Emerge un’idea di giustizia che non costituisce una guida per le condotte e per gli effetti che si riverberano sulle diverse volontà[60]. Il processo sarebbe soltanto la constatazione del volere vincente[61]: in questo caso il volere vincente di un’istanza – anzi di una “pretesa per il diritto” – di porre fine ad una vita. Ma, “Volere vincente” a priori, soprattutto di alcuni movimenti organizzati e strutturati in “lobby” funzionali non estranee a logiche economiche a sostegno del c.d. “diritto di morire” ed a loro modo portatori di mascherati “valori” etici e/o bio-etici[62]. La giustizia, quindi, sarebbe la giustificazione ex post della forza vincente perché del più forte. Il giudizio giuridico non sarebbe terzo imparziale, ma l’enunciato della fattualità vincente di una parte[63] e la sentenza che pone o dà un’interpretazione del mondo non oggettivata nella forma garantita del diritto è solo un mero pensiero a proposito del diritto, conseguenza del nichilismo giurisdizionale o applicativo.
4.- L’etica come guida interpretativa. La mitopoiesi.
L’etica giuridica (processuale)[64] può essere uno strumento di verifica e di controllo della validità e legittimità dell’attività giurisdizionale e un antidoto o uno sbarramento al declinare del processo verso il nichilismo.
La scelta del rito a seguito dell’esercizio dell’azione in relazione al diritto dedotto in giudizio o al conflitto tra contrapposti interessi, la scelta del giudice competente come giudice naturale, la corretta instaurazione del contraddittorio con tutti le parti: i vari “chi unico” “chi unico complesso” e “chi unico collettivo”; la prova, il comportamento di questi ultimi e del giudice durante le fasi processuali; costituiscono, come si dirà più diffusamente oltre, momenti fasici fondamentali ed eticamente rilevanti del processo la cui disciplina sia costituzionale (artt. 24, 25, 101 e 111 Cost.) che ordinaria (88, 96, 101, 116 c.p.c.) costituisce uno statuto etico del processo.
Assumono rilievo e valore giuridico nei vari passaggi strategici delle varie fasi processuali fino alla decisione finale: il momento iniziale di esercizio dell’azione laddove si compie la scelta dei mezzi o degli strumenti processuali; il rito sommario camerale piuttosto che quello ordinario di cognizione; la responsabilità delle parti nell’adire una via e/o nell’abuso dello strumento rispetto al fine e quella dei giudici per aver avallato e convalidato quella o quelle scelte; il comportamento e la responsabilità delle parti, i “chi unico” e del giudice durante il processo. Altrettanto un ruolo fondamentale lo svolge in relazione al modus procedendi; all’accertamento della verità, nel senso sopra detto di “corrispondenza” che nel caso in esame riguarda in primis la sussistenza di un “diritto di morire” in base ad un predicato legislativo e in secondo luogo, ammessane l’esistenza, la compresenza di elementi probatori ed accertamenti tecnici disvelanti un vero e valido consenso dell’interessata/to a porre fine alla propria vita, nonché le modalità tecniche e mediche con cui procedere per porre fine alla vita.
Ma prima di tutto occorre intendersi su cosa è l’etica e di quale etica parliamo[65]. Il concetto di etica che qui viene in rilievo è senz’altro l’etica giuridica ma i riferimenti all’etica in sé e alla bio-etica non potranno mancare in correlazione al tema della fine-vita[66].
L’etica giuridica è quella espressa nei valori canonizzati nella Costituzione e nei principi presenti nel sistema ed è a questi che i giudici nell’esercizio della giurisdizione e gli avvocati nella tutela del diritto di difesa devono fare riferimento e rapportarsi costantemente (artt. 24, 25, 101, 111 Cost., 88, 96, 116 c.p.c.; il Cod. deont.).
Entrambi sono responsabili necessari dell’attuazione giurisdizionale del diritto ed entrambi portatori di doveri etici complementari rispetto agli obblighi giuridici attinenti alla loro funzione. Doveri etici posti anch’essi a presidio del valore fondamentale della giustizia e con esso del correlativo valore fondamentale della difesa.
I problemi di carattere morale e giuridico non sono certamente uguali, ma entrambi si basano sull’idea di persona e segnatamente di persone responsabili[67].
Lo scaricabarile delle responsabilità, la deresponsabilizzazione orgiastica[68], sempre più frequente nelle società moderne e liquide[69], voglio sperare con Hanna Arendt che trovino sempre una battuta d’arresto sulla soglia di un tribunale[70].
Il diritto giusto si identifica con l’etica giuridica che a sua volta si pone come categoria superiore al diritto positivo.
La problematica più grave di quest’ultimo, anche in rapporto all’etica, risiede nella sua naturale incompletezza che non riguarda soltanto le lacune delle situazioni bisognevoli di una disciplina legislativa, ma soprattutto le stesse modalità delle previsioni normative ed il conseguente passaggio delle norme giuridiche dallo stato previsionale a quello attuativo. E tanto vale sia per le norme sostanziali che per le norme processuali. L’interpretazione giudiziaria coglie il valore giuridico nel momento ultimo della realizzazione. Essa è chiamata ad adattare l’effetto giuridico astrattamente previsto dalla norma alla situazione fattuale oggetto concreto della controversia.
L’enunciato normativo astratto, indeterminato, nel momento della sua applicazione al caso concreto, attraversa un processo di adattamento nel quale si annida il fattore di maggiore incertezza di ogni giuridicità.
Tale incertezza non risiede solamente nella interpretazione dell’enunciato normativo, astratto, generale e indeterminato, quanto piuttosto nell’applicazione della norma, nel suo farsi regola del caso specifico, concreto e determinato.
Nell’adattamento si annida il rischio dell’errore perché il passaggio dal generale al particolare, dall’astratto al concreto e dall’indeterminato al determinato introduce fattori integrativi, sollecitati dalla situazione di specie, che possono deviarne il corso legittimo. In questo passaggio, appunto, nell’ipotesi dell’adattamento giudiziale, si racchiude il senso intimo della genesi della decisione perché i fattori integrativi, che connotano l’attività adeguatrice come attività integrativa, sono attinenti al caso specifico, sicchè, l’adeguamento è sempre in qualche misura un fattore esterno alla norma generale che introduce nella vita del diritto momenti di apprezzamento soggettivo. Rientra in questo ambito il problema delicato del limite alla scienza privata del giudice posto dall’art. 97, disp. att. c.p.c.
Tali fattori integrativi esterni – affatto problematici nei casi di attuazione spontanea della norma – non si possono lasciare all’apprezzamento soggettivo del giudice senza esporre a rischio il valore fondamentale della certezza del diritto[71].
Sicchè, tale apprezzamento deve ubbidire a direttive sociali che rappresentano una forma di controllo della società sull’attività dei giudici ed un vincolo nell’esercizio del loro potere integrativo: direttive che devono trovarsi, appunto, nell’etica sociale.
Fermo restando che, negli ordinamenti di “civil law”, come il nostro, l’etica sociale alla quale attinge l’etica giuridica (e processuale) non può costituire la fonte decisionale del giudice in mancanza di un predicato normativo generale ed astratto.
I fattori integrativi, in mancanza di un enunciato normativo generale, trasformano l’attività adeguatrice-integrativa in attività creatrice della norma e sostitutiva dell’Organo legislativo.
“Si deve abbandonare all’autorità del giudice il minor numero possibile di questioni; quanto invece al fatto che una cosa sia avvenuta o non sia avvenuta, che avverrà o non avverrà, che sia o non sia in un dato modo, è necessario alla discrezione dei giudici perché non è possibile che il legislatore preveda questi fattori.[72]”.
E’ questo che rende la legge imprecisa e indeterminata ed è per questo che l’interpretazione serve a precisarla e a determinarla.
Il diritto è un’interpretazione del mondo, ma solo una parte di tale interpretazione si oggettivizza nella forma garantita del diritto, mentre un’altra parte rimane esterna a tale oggettivazione, rimane un’interpretazione socialmente dominante e nel rapporto tra la prima e la seconda si istituisce il confine tra diritto e non diritto[73].
L’etica e/o la bio-etica nelle parti non oggettivate nella forma garantita del diritto possono costituire i fattori integrativi esterni, quei momenti di apprezzamento soggettivo che, come già avvertito, da un lato impreziosiscono il momento applicativo e dall’altro non solo possono minacciare la certezza del diritto, ma se portati ad estreme conseguenze diventano vera e propria creazione normativa da parte dell’interprete giudiziale: una sorta di “mitopoiesi[74]”. La comprensione, di cui l’interpretazione ne è l’articolazione interna, necessita degli elementi per attuare l’operazione ermeneutica alla stessa stregua delle tessere di un mosaico o di un “bricolage”. Il mosaicista o il “bricoleur”, prende, in eredità dal mondo, gli strumenti, i segni, i concetti più o meno coerenti o degradati, che nel campo giuridico sono costituiti dai testi normativi, e li ricompone secondo un ordine ed un senso.
Il risultato dell’interpretazione dei testi normativi, come per il mosaicista o per il “bricoleur” la composizione del mosaico e del “bricolage”, è l’ordine e il senso impresso agli elementi imprecisi o indeterminati rinvenuti o ereditati dal sistema. L’ingegnere che per Lèvi-Strauss è l’ideatore del “bricolage” nel mondo del diritto corrisponde all’Autore dei testi normativi che si identifica con il legislatore o nomoteta, memtre il “bricoleur” è l’interprete-esecutore. La confusione tra ingegnere e “bricoleur”, tra legislatore e interprete, rendono il “bricolage” mito-poietico perché si capovolge il rapporto tra legislatore e interprete e si trasforma e si fonde in quello di interprete-legislatore: l’interprete, come il “bricoleur”, diventa il mito, prodotto dal “bricolage”, ovvero, dalla creazione al posto dell’interpretazione. Il significato riduce a sé il significante cancellandone l’identità. Ma, perché il mosaico, il “bricolage”, si componga e si costituisca è necessario che l’opera di ricomposizione dei pezzi avvenga secondo un ordine determinato. Ogni gioco ha le sue regole e il risultato è sempre determinato dal rispetto delle regole. Una partita di calcio può terminare in un modo o in un altro a seconda che vengano o meno seguite e rispettate le regole proprie del calcio.
Nella vicenda in parola mancano – se non in tutto almeno in buona parte – gli elementi del “bricolage” ovvero i testi da interpretare per ricavarne la norma: l’ordinamento vigente non detta alcuna disciplina sulla fine-vita, sia con riferimento all’an che al quomodo[75].
In un ordinamento come il nostro modellato su regole legislative, il giudice come deve operare in presenza di una domanda giudiziale in tal senso diretta? Può appropriarsi dell’attività funzionale valutativa che è propria del legislatore con violazione dello stato di diritto fondato sul principio della divisione dei poteri sul primato della Legge parlamentare?
L’attività nomotetica e mitopoietica della Cassazione, scrivendo, in qualche modo de facto ex novo la norma eutanasica, si può considerare un oltrepassamento dell’etica giuridica, il gesto-paradosso di Abramo? O, piuttosto si può avvicinare all’eroe tragico[76]? Direi di no in entrambi i casi. No, per il primo perché non c’è alcuna fede a cui rispondere, semmai un certo sentire, una certa cultura, avvertite da sistemi parziali della società che comunque ci riporta nel campo dell’etica. No, per il secondo perché non c’è nessuna comunità da salvare, manca il prezzo, la contropartita. Tuttavia vi è un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. E questo avere un po’ dell’uno e un po’ dell’altro si coglie nel porsi in rapporto diretto con il corpo sociale interpretando il generale per il generale e nel dover rispondere a tutti i costi ad un’istanza per una delusione del mondo, un’insoddisfazione, un desiderio, ubbidendo a pressioni socialmente dominanti.
E’ sospensione teleologica dell’etica giurisdizionale e della giurisdizione stessa[77]. Il “perché” rinvia al “come”, ma, non a qualsiasi “come”, non a qualsiasi monte del mondo, ma al monte Moria. Abrano avrebbe potuto sacrificare Isacco, l’unico figlio, il figlio che amava, appartandosi vicino al suo stesso accampamento[78]. Invece, no! Dio gli ha dettato le regole dell’olocausto, le regole per consumare il sacrificio, ovvero, il sacrificio doveva compiersi secondo quel “diktat”: “Prendi tuo figlio … và nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò[79].” Abramo ubbidisce all’ordine, prende Isacco e si avvia per tre giorni a raggiungere il territorio di Moria.
In quei tre giorni di Abramo è racchiuso il pathos della sua decisione, tutta in quell’“eccomi!”; ma, decisione che avrebbe potuto cambiare e che Dio stesso avrebbe potuto cambiare: un’alternanza di ragione e follia; di ragione e fede; di etica e paradosso. Ma se Abramo avesse deciso di ubbidire al comando senza recarsi sul monte Moria, cosa sarebbe successo? Isacco gli sarebbe stato restituito? Nessuno può dirlo. Ma, si può affermare che il rispetto dell’ordine di offrire il figlio in olocausto e di offrirlo nei termini prestabiliti da Dio ha ridato Isacco a suo padre Abramo. Abramo ha rispettato le regole del comando e questo basta[80].
Ritornando alla vicenda in argomento, la Corte, approdando ad un monte qualsiasi che non è il monte Moria – senza una adeguata e maturata gestazione – ha dato vita ad un “perché” che non è il suo “perché”, quello autentico, in quanto non proviene dal giusto “come”. La dissonanza tra elemento significante e significazione compromette quei principi o postulati che definiscono e limitano l’ambito di operatività funzionale degli organi istituzionali anche in rapporto ai livelli di sovranità. L’accettazione di un rito processuale che non è quello giusto per la situazione precipua oggetto del giudizio, del contendere, produce un processo inautentico ed una decisione inautentica. Solo il giusto rito è produttivo di senso, autenticità e processo giusto[81].
Diversamente il processo giuridico perde la sua funzione di catalizzatore risolutivo dei conflitti e da luogo del dialogo razionale si trasforma in luogo strumentale della constatazione e ratifica della forza vincente[82], o, secondo una variante, scopo del processo non sarebbe la ricerca e l’affermazione della verità, ma solo la pace giuridica raggiunta attraverso la cosa giudicata[83]. La sentenza, anzicchè essere rivelatrice di criteri di verità in termini di “corrispondenza”, alla “realtà” ritenuta, tra più enunciati descrittivi, vera in base all’apprezzamento del patrimonio gnoseologico acquisito nel corso del procedimento[84] è solo l’enunciato formale di legittimazione della forza-più proveniente da sistemi parziali e ristretti della collettività, portatori di verità parziali[85].
5.- Il contraddittorio ed il giusto rito processuale.
“… La decisione delle controversie appartiene alla terzietà del giudice che cerca il “giusto” nel “legale” e dunque deve essere assunta in un luogo terzo, omogeneo … non può avvenire in uno spazio qualsiasi, dove si scontrano le parti e si prende atto del vincere di chi è più forte nell’ordine della dualità.”.
( S. Romano, Sulla trasformazione della terzietà giuridica)
Il termine “contraddittorio” racchiude epistemicamente il senso dialogeno di svolgimento del processo. In una parola: la dialettica democratica nel processo.
Esso è il metodo migliore per l’accertamento della verità degli enunciati.
La ricerca della verità giudiziale si persegue meglio con la dialettica tra le parti (i vari “chi unico”) anzicchè con la ricerca solipsistica dell’inquisitore. Di qui la estraneità del contraddittorio ad ogni polemica contrapposizione tra sistema accusatorio e sistema inquisitorio.
Con la L. Cost. 23/11/1999, n. 2, che ha novellato l’art. 111 Cost., il contraddittorio (art. 101 c.p.c.) assurge al rango di principio costituzionale. Il nuovo secondo comma del citato art. 111 Cost., estende il principio a tutte le tipologie processuali, dettando nei successivi commi opportune specifiche disposizioni per il processo penale.
La normativa internazionale, sia la CEDU che il Patto Internazionale dei Diritti Civili e Politici, sebbene non parli espressamente di contraddittorio non vi è dubbio che in essa ne è evocato il senso e la portata concettuale[86].
Nella specie il procedimento è stato instaurato nella forma della volontaria giurisdizione ai sensi dell’art. 737 e ss. c.p.c.[87].
La pretesa incorporata nella domanda giudiziale avanzata dal tutore per l’autorizzazione alla sospensione del presidio sanitario sembrerebbe essere simile a quella di un’autorizzazione alla vendita di un bene del minore o dell’interdetto o di un’autorizzazione all’espatrio per i minori, quindi, pienamente rientrante nell’ambito di previsione della procedura camerale.
Ancor prima ed a prescindere dalla contenziosità che pure si configura nel rito camerale e della natura di sentenza idonea al giudicato quando si controverte su diritti, la vicenda in esame mi sembra che non sia stata trattata come procedimento bi o plurilaterale contenzioso.
Inizialmente non c’è contraddittorio nè contenziosità perché non c’è ancora il curatore speciale, poi nominato da Cass. 8291/05.
Ma la nomina del curatore – per le problematiche riflessioni sopra esposte – non trasforma il rito unilaterale non contenzioso in uno bi-laterale o plurilaterale contenzioso[88].
Al “chi unico” tutore si è aggiunto il “chi unico” curatore e di fatto hanno costituito un unico “chi unico” parlante.
Chi è il contraddittore? Nessuno. Non lo è il P.M.[89] Non lo è il curatore speciale[90].
L’aporia processuale è evidente e produttiva di un’altra domanda che è la seguente: come mai non è stato integrato il contraddittorio – atteso “il diritto” azionato e la gravità delle conseguenze della sua affermazione – con altri “chi unico”: l’altro genitore della interdetta e tutti i soggetti legittimati passivi nei procedimenti su stato e capacità delle persone?
Nei procedimenti di contestazione o di disconoscimento della paternità o maternità la nomina del curatore speciale o l’iniziativa giudiziale del tutore non esclude gli altri soggetti indicati dalla legge come contraddittori necessari[91]
Se il litisconsorzio necessario è previsto per le cause di divisione della comunione in tema di diritti reali ed in quelle di stato e capacità e per la nomina dell’amministratore di sostegno, come mai per affermare il “diritto di morire”, di un terzo rispetto ai soggetti parlanti, la partita si gioca tra tutore/curatore e giudice?
Riprendendo gli interrogativi di cui sopra se, tra tutore e curatore, fosse insorta una totale divergenza di vedute o si ammettono due situazioni processuali e sostanziali divergenti e contrapposte, con la conseguenza di ritenere il tutore attore per un interesse proprio e contrario a quello del curatore rappresentante della interdetta, oppure, secondo la soluzione più corretta, cioè quella di considerare entrambi, sia pure con contrapposte volontà, rappresentanti della medesima, si deve concludere che il “contraddittorio” sia esistito solo all’interno del medesimo “chi unico”, dando luogo ad un rapporto unisoggettivo[92] processuale o un unico “chi unico processuale”.
Nemmeno un “chi unico collettivo” ma un unico “chi unico”.
Tutto ciò naturalmente si riflette ed incide sulla ricostruzione del consenso alla fine-vita effettuata a senso unico anzicchè ad unità di senso. Solo nella cognizione piena la prova esplica massimamente i suoi effetti dimostrativi e semantici. E ciò non solo con riferimento alla ricostruzione del consenso, ma anche con riferimento allo SVP e alla funzione del sondino naso-gastrivo rispetto alla terapia e cosa deve intendersi per sostegno terapeutico e cosa per sostegno vitale.
In mancanza di una disciplina organica e sistematica sulla fine della vita, il modo corretto sotto il profilo dell’azione processuale sarebbe stato quello di rivolgere la pretesa di sospendere l’alimentazione assistita alla struttura sanitaria pubblica competente e di fronte al rifiuto – attesa la natura della pretesa per il diritto in questione di porre termine ad un’esistenza – chiamare davanti al giudice ordinario a cognizione piena l’Azienda sanitaria, la Regione ed il Ministero competente per il riconoscimento del “diritto” ad essere autorizzati alla sospensione dell’alimentazione assistita. Solo così si sarebbe realizzato un contraddittorio pieno: una relazione dialogena tra più diversi parlanti e tra questi ed il giudice. La formazione della prova sia in relazione alla ricostruzione del consenso, sia in ordine all’accertamento tecnico-scientifico sulla funzione medico-sanitaria del sondino naso-gastrico ed infine, ma non ultimo, sull’esistenza, alla luce del sistema ordinamentale, del diritto di porre fine alla propria vita o alla vita di un’altra persona.
Riprendendo la dicotomia “giusto non giusto”, “legale non legale”, la seconda ha prevalso sulla prima. La correttezza formale di un qualunque rito processuale (la nomina del curatore speciale ha tacitato la coscienza di insigni processualisti), è stata sufficiente a prescindere dal risultato che quel rito avrebbe prodotto[93], sebbene, anche nell’ambito del rito camerale sommario, come avviene in materia di modifica delle condizioni di separazione e divorzio o in materia di adozione, si possa benissimo instaurare il contraddittorio.
La conseguenza del nichilismo giuridico applicativo è massimamente quella di usare qualsiasi forma processuale e di assicurarsi il rispetto formale dello schema processuale senza attribuire senso a quella forma riconducendola sensatamente alla situazione sostanziale sottostante per l’affermazione della quale il processo è lo strumento.
La sintonia o corrispondenza tra rito (procedurale) e dirittto sostanziale è produttiva di senso e del giusto processo: indispensabile premessa per celebrare un processo giusto.
Il processo come l’abito ha la sua misura. Il processo è luogo produttivo di senso: il diritto giusto per il caso singolo.
La corrispondenza effettuale tra rito processuale e situazione sostanziale dedotta è fondamentale e funzionale alla realizzazione del principio costituzionale del giusto processo, anzi ne costituisce un presupposto indefettibile. Non un qualsiasi rito procedurale dunque è idoneo all’accertamento di qualsiasi situazione sostanziale ma il rito adatto o compatibile o corrispondente a quella situazione che si deve affermare[94]. Il giusto rito per un giusto processo trova sicuro fondamento costituzionale non solo nello stesso art. 111 Cost., di cui ne è espressione, ma ancor prima negli artt. 2, 3, 24, 25 e 101 Cost. Il trattamento uguale per situazioni uguali; il rito per quella determinata situazione dedotta; l’esercizio dell’azione davanti al giudice naturale precostituito per legge ed assoggettato a sua volta alla legge, legge sia sostanziale che processuale.
Solo in tal modo la forma processuale diventa forma sensata.
Ma perchè la cognizione piena? Perché essa è il luogo del processo nel quale più di ogni altro si coglie il senso e la coscienza comunitaria contestualizzati. Perché è lo schema che più di ogni altro offre le garanzie e gli strumenti per attuare quella corrispondenza delle risultanze istruttorie alla realtà delle cose: per un accertamento della verità, verità che culmina nella regiudicata formale ex art. 324 c.p.c. e sostanziale ex art. 2909 c.c. Perché in esso tempi, modi e poteri delle parti e del giudice sono pre-definiti normativamente.Tanto più quando la pretesa dal o di diritto si sostanzia in una pretesa per il diritto, ovvero quando la delusione di aspettativa è diretta conseguenza di un vuoto legislativo.
Ma anche perché il rito ordinario garantisce più di quello sommario la terzietà e neutralità del giudice, soprattutto quando manca un quadro normativo di riferimento sia pure per linee generali.
Vero è che il principio costituzionale informa qualsiasi rito processuale, quindi, anche quello camerale e/o sommario, ma è altrettanto vero che essi non sono sovrapponibili o a scelta libera. Ciascun rito corrisponde al tipo di rapporto dedotto in giudizio: è necessaria la “corrispondenza” del rito alla situazione sostanziale; “corrispondenza” anche qui intesa come sinonimo di verità. Verità a sua volta da intendersi come esistenza o meno di un fatto o di fatti e come prova della verità di “enunciati fattuali”[95]. L’enunciato è un modo di appropriazione dello stato di svelamento e del modo di essere nel processo che si fonda nello svelare, ovvero nella schiusura del “chi unico”, come esser-ci nel processo che, appunto, si svela attraverso il e nel contraddittorio. La verità originaria è il luogo dell’enunciato. Il contraddittorio è il luogo di produzione della comprensione che presuppone lo svelamento e la interpretazione (articolazione interna della comprensione). Quando l’interpretazione in quanto tale diventa espressamente il compito di un’indagine, l’insieme di questi “presupposti”, che costituisce la “situazione ermeneutica”[96], richiede un chiarimento, una garanzia preliminare, in base e all’interno di un’esperienza fondamentale dell’“oggetto da esplorare”.
Questa garanzia preliminare è appunto data dal contraddittorio. Questo nella procedura camerale, ex art. 737 ss c.p.c., si attua in maniera imperfetta. L’attività giurisdizionale dichiarativa dei diritti e degli status si svolge in un giudizio che non è di cognizione piena, ma sommaria, deformalizzata e superficiale in quanto lo schema processuale è costruito per l’accertamento celere di situazioni di interesse ed ha la funzione precipua di integrare l’autonomia privata in presenza di interessi a rilevanza pubblicistica, quindi, è di ausilio alla gestione di situazioni private che non richiedono un accertamento con valore di giudicato; tant’è che il provvedimento, tranne i casi espressamente previsti dalla legge, come l’art. 4. 16, L. 1/12/1970, n. 898 (L. div.), assumono la forma del decreto o dell’ordinanza privi di attitudine al giudicato perché sempre revocabili o modificabili ai sensi dell’art. 742 c.p.c. Il giudicato di cui parla l’art. 2909 c.c. si ricollega alla cosa giudicata formale di cui all’art. 324 c.p.c. ed è sinonimo di definitività. Il valore semantico che assume il richiamo alla cosa giudicata formale risiede nella definitività e vincolatività di un provvedimento formatosi con un procedimento compiutamente modellato sui canoni del giusto e dovuto processo in cui l’attività cognitiva del giudice regolamentata dalla legge e per la quale sono previsti sistemi di controllo attraverso le impugnazioni capaci di riparare ogni vizio o violazione[97]. Il giudicato si congiunge ad un articolato sistema di impugnazione e ne è la matrice ispirativa. Il giudicato “tout court” non può che essere dato dalla sentenza. Questa è in potenza nelle singole istanze e le singole istanze non sono assorbite nella sentenza, non si annullano, ma la loro ricerca della verità si rinnova nella ricerca della verità che la sentenza ne dà. Questa non è semplicemente un “essere sentenza”, chiusa, ma è la pluralità delle istanze diventate sentenza. Queste due dimensioni non sono in ordine seriale, l’una non si esaurisce appena inizia l’altra, ma entrambe sono reciprocamente compresenti. Quando una cosa diventa “altro” nel risultato di questo suo divenire non c’è soltanto l’altro, ma c’è piuttosto l’essere altro da ciò che è diventato altro[98].
Il diritto che si afferma nella sentenza è l’interpretazione del mondo data dal giudice al termine del giudizio e che poi va a costituire il bene della vita: l’affermazione o la negazione del diritto sostanziale oggetto di una pretesa. Questa interpretazione del mondo, a sua volta, è il risultato di una serie di interpretazioni delle norme processuali che dall’inizio del giudizio si è reso, di volta in volta, necessario applicare per giungere al risultato finale: la decisione. Tali interpretazioni delle disposizioni processuali sono, a loro volta, interpretazioni del mondo in quanto esse affermano il diritto processuale in quelle determinate fasi del giudizio.
Pervenire al diritto come espressione di un’interpretazione del mondo mediante una serie di interpretazioni del mondo per l’adattamento della norma o degli istituti processuali all’oggetto del contendere, ovvero dell’accertamento giudiziale, costituisce un “gioco”; una pallina di “ping pong” o di “tennis” che va da una parte del campo all’altra e questo gioco genera una necessaria reciproca contaminazione giuridica e di senso.
La norma che viene in essere nella e con la decisione finale è a sua volta il frutto di una serie di norme rinvenute nel corso del procedimento e applicate strumentalmente per l’accertamento della pretesa giuridica.
Ogni singola interpretazione di ogni singola norma processuale concorre all’accertamento e all’affermazione del diritto sostanziale. Questo, a sua volta, è il diritto-norma dato dalla sentenza: l’interpretazione del mondo alla quale si perviene mediante altre interpretazioni del mondo. Il primo è necessariamente condizionato e influenzato dalle seconde.
L’interpretazione della norma processuale in un modo o in un altro conduce ad un accertamento anzicchè ad un altro o ad un determinato accertamento che può essere quali-quantitativamente diverso da come sarebbe stato se la norma processuale fosse stata interpretata diversamente. L’ambito oggettivo dell’accertamento è funzionalmente e direttamente collegato da un nesso di dipendenza all’interpretazione della norma processuale.
Il “gioco ermeneutico”, che deve avere le sue regole, è gioco della significazione, tra significante e significato[99]. Il principio di acquisizione (rinvenuto nell’art. 2697 c.c.) fa sì che il gioco del trasferimento comunicativo di senso dell’interpretazione rilevi oggettivamente a prescindere dai giocatori o soggetti (protagonisti processuali) dell’interpretazione.
Credo di aver detto a sufficienza per dimostrare che la scelta del rito solo eccezionalmente può essere libera, ma normalmente è, e deve essere, predeterminata soprattutto quando si controverte su diritti umani o personalissimi e status[100].
Mentre il giudizio ordinario a cognizione piena – ad eccezione delle cause di lavoro o per le quali è previsto un apposito rito – può andar bene per qualiasi controversia su diritti e status per la sua predefinizione dei poteri delle parti (vari “chi unico) e del giudice, dei tempi e dei modi, gli altri riti non sono alternativi nel senso di essere rimessi alla libera scelta degli istanti, ma sono prestabiliti dal legislatore processuale per determinate controversie. Solo per fare alcuni esempi importanti: il rito del lavoro (art. 409 ss c.p.c.) non può essere intercambiato con quello ordinario e con nessun altro se ha ad oggetto rapporti di subordinazione o parasubordinazione e lo confermano l’art. 427 c.p.c. sul passaggio del rito speciale al rito ordinario e l’art. 428 c.p.c. sull’incompetenza del giudice ordinario; il procedimento a cognizione sommaria ex art. 702bis c.p.c. è alternativo a quello ordinario tranne che non si verifichino le ipotesi per le quali ai sensi dell’art. 702ter c.p.c. il giudice dispone che la causa venga trattata con il rito ordinario; altrettanto vale per i procedimenti di separazione e divorzio laddove l’introduzione del procedimento bifasico a forma vincolata con l’udienza presidenziale e una fase sommaria iniziale e poi ordinaria e gli esempi potrebbero continuare[101]. L’oltrepassamento di questo “ordine delle cose” non solo vizia il giudizio, ma costituisce al contempo una violazione dell’etica giuridico-processuale e del principio costituzionale del “giudice naturale” nell’accezione data come “luogo-spazio” della comprensione e della interpretazione e genesi della decisione finale.
Un principio etico giuridicizzato risiede nell’art. 88 c.p.c. e negli artt. 24, 25, 101 e 111 Cost. e dalla combinazione di queste norme, una ordinaria e le altre di rango superiore, si rinviene un ulteriore principio etico oltre che giuridico: la lealtà e probità nel processo davanti un giudice terzo (naturale), precostituito al giudizio, che sia quel giudice per quella azione giudiziale, nel rispetto del contraddittorio in condizioni di parità che in una parola danno senso e contenuto al “giusto processo” e dal quale si rinvengono le direttive per la corretta instaurazione dell’azione sia con riferimento alla scelta del rito che alla realizzazione dell’integrità del contraddittorio ed il comportamento del giudice e delle parti durante tutte le fasi ed i gradi del giudizio. Tali norme-principi concorrono tutte alla realizzazione del superiore e finale principio del giusto e dovuto processo per addivenire ad un processo giusto quale risultato tensionale finale del primo attraverso la sentenza quale atto conclusivo di giustizia. Non ci può essere diritto giusto senza processo giusto. Quest’ultimo è il risultato ed il senso del giusto processo e mediante cui si afferma il diritto giusto.
E’ ovvio, tuttavia, che il legislatore nel predisporre una disciplina del fenomeno fine-vita possa stabilire di scegliere un rito diverso da quello ordinario di tipo sommario con adattamenti ad hoc come per es. è avvenuto in tema di modifica delle condizioni di separazione e divorzio, in tema di adozione e altre ipotesi, ferma restando la salvaguardia del contraddittorio opportunamente modellato sul rito[102].
Ma in tal caso vi sarebbe innanzitutto una disciplina della situazione sostanziale e sarebbe una scelta di sovranità. Il rito a cognizione piena si imponeva proprio per la mancanza di una disciplina organica della situazione sostanziale.
6.- Una pretesa (dal o di diritto) per il diritto di un “chi unico” troppo unico.
La pretesa giuridica si immette nel sistema attraverso il linguaggio/discorso: da un lato c’è il soggetto parlante e dall’altro il sistema[103].
Il parlare accede al sistema mediante la pretesa giuridica: l’ambito del parlare è il luogo dove un’aspettativa pretende di essere confermata per la sua “verità” o per la sua “autenticità” esistenziale. La soddisfazione o la delusione di ogni aspettativa si dà all’inizio come indifferente ed è assegnata all’uno o all’altro elemento del codice binario “diritto / non diritto”.
La pretesa giuridica dà senso al sistema perché essa dà vita al sistema stesso in quanto reattiva alla delusione e non assoggettativa.
Alla distinzione presente in letteratura tra “pretesa dal diritto e pretesa di diritto”[104], mi permetto di aggiungere una ipotesi specificativa: “la pretesa per il diritto”. Questa ultima si sostanzierebbe in una istanza per ottenere dallo Stato/sistema il riconoscimento di una situazione fattuale non contemplata da una norma data.
A mio giudizio, la delusione di un’aspettativa – come nella considerata ipotesi di vuoto o quasi vuoto normativo – può riguardare una qualsiasi situazione fattuale, una situazione più o meno socialmente rilevante: una interpretazione del mondo socialmente dominante proveniente da altri sistemi parziali: un desiderio, un capriccio, insomma una qualsiasi sofferta delusione di aspettativa[105]. Tale pretesa può assumere due profili: uno, di natura extragiudiziale, che può essere oggetto di uno strumento di democrazia diretta nelle forme della petizione e dell’esercizio dell’iniziativa legislativa; l’altro, nella forma della domanda giudiziale con cui si chiede alla giurisdizione di riconoscere un diritto non presente in una norma data anche attraverso la rimozione di ostacoli da parte del giudice delle leggi.
Nel primo caso l’ordinamento costituzionale all’art. 50 Cost. conferisce a tutti i cittadini (singoli, associazioni, enti) il diritto di rivolgere petizioni al Parlamento per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità e all’art. 71.2, Cost, attribuisce al popolo l’esercizio dell’iniziativa legislativa. Tali istituti sono esercizio di sovranità ed espressione concreta ed effettuale dell’art. 1 Cost. Ma esse, in una lettura più ampia in collegamento con l’art. 101 Cost. costituiscono altresì un limite alla nomopoiesi della giurisdizione in ordine ai valori e un fondamento della competenza della società ad autodeterminarsi che con la Legge fondamentale essa stessa si è data su ciò che di volta in volta debba assurgere a valore preponderante nella misura in cui un’aspettativa individuale o collettiva debba essere sacrificata ad un’altra[106].
Nel secondo caso l’istanza si propone al giudice competente per ottenere – attraverso il processo – un pronunciamento che riconosca giuridicità ad una situazione fattuale che esprime una delusione dal diritto.
La seconda ipotesi presuppone una lacuna nell’ordinamento. Questa lacuna può essere di natura tecnica o ideologica[107]. Il problema – se la lacuna è di natura tecnica – dovrebbe trovare soluzione nel quadro dell’art. 12 Preleggi; se, invece, la lacuna è ideologica perché si tratta di affermare istanze per bisogni socialmente avvertiti ma in contrasto con i principi recepiti, difficilmente potrebbe trovare soluzione ricorrendo al meccanismo di autointegrazione del citato art. 12 che allo stesso tempo, facendo sistema con l’art. 101 Cost., vieta al giudice di usare criteri di eterointegrazione e, aggiungo, che con l’art. 134 Cost. pone al giudice il divieto, altresì, di disapplicazione delle leggi e degli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi). Quid iuris? Si potrebbe percorrere la via della questione di legittimità costituzionale. Questa strada sarebbe percorribile quando nell’ordinamento esistono ostacoli all’esercizio di una pretesa di fatto, socialmente rilevante e non costituzionalmente incompatibile o la presenza di norme o comunque di ostacoli che impediscono la trasformazione della pretesa di fatto in una pretesa giuridica; sicchè una pronuncia della Corte Cost. di illegittimità costituzionale delle norme ostative può conferire alla pretesa di fatto il crisma della giuridicità. Nel caso in esame, invece, di operare de facto una disapplicazione delle norme penali, si poteva utilizzare il percorso della declaratoria di incostituzionalità degli artt. 5 c.c., 50, 579 e 580 c.p. nella parte in cui non consentono che, nei confronti di un paziente in SVP, il medico, accertato ed acquisito il consenso della paziente medesima, possa interrompere il sostegno vitale della alimentazione e idratazione forzata.
Non sarebbe praticabile tale ultima soluzione ove la materia oggetto della pretesa fattuale rientri nella discrezionalità legislativa.
Poi secondo una tesi giurisprudenziale condivisa da una parte della dottrina[108] la seconda ipotesi sopra prospettata sarebbe praticabile a prescindere in quanto vigerebbe per il giudice il divieto del non liquet.
Degli ultimi aspetti si dirà dopo.
Ora occorre vedere quale e/o quali parlanti rivolgono il discorso articolato in linguaggio e come lo rivolgono ad un terzo che deve dare il responso: il “chi unico”, di cui si è detto prima, contro un altro “chi unico”, davanto al giudice terzo.
Ma il “chi unico” può essere costituito da più singoli parlanti, magari accomunati da un unico o uguale interesse, cosicchè il “chi unico” coincide con quello di “parte processuale”, nell’accezione di parte come titolare del rapporto dedotto in giudizio, nel cui ambito vi sono (o vi possono essere) più singoli parlanti tra di loro (più di un “chi unico” o “chi unico collettivo”) e verso un altro singolo parlante o altri singoli parlanti (altro “chi unico collettivo”) anche questi a loro volta dialoganti sia tra di loro che rispetto agli altri e tutti insieme rivolgono il loro parlare articolato in discorso-linguaggio ad un terzo.
Il “chi unico”, (collettivo o meno), parte processuale, potrebbe non essere il titolare del rapporto dedotto in giudizio ed essere un parlante per un altro “chi unico” che non può parlare per se stesso.
Nei casi di rappresentanza nell’ambito della legittimazione ad agire ex art. 75 c.p.c., il rappresentante legale agisce in nome e per conto di un altro soggetto, titolare del diritto sostanziale o del rapporto dedotto in giudizio, che – per ragioni di età o per una minorazione incidente sulla libertà di disporre dei propri diritti – non ha capacità e non può agire in giudizio.
Nella specie, l’interessata dichiarata interdetta, era rappresentata dal tutore nella persona del genitore. Quest’ultimo nella qualità ha presentato un’istanza avente ad oggetto una pretesa per il diritto di essere autorizzato a sospendere l’alimentazione e la idratazione medicalmente assistita della propria figlia (pupilla) o rappresentata. Ha rivolto la sua pretesa giuridica ad un terzo senza rivolgere il suo parlare-discorso contro o nei confronti di nessun altro parlante, un “chi unico” contrapposto. La Corte ha ritenuto di nominare un curatore speciale ai sensi dell’art. 78 c.p.c. ravvisando evidentemente un conflitto di interessi.
A questo punto sorgono una sequela di problematiche riflessioni. Chi deve ritenersi il rappresentante dell’interessata incapace: il curatore speciale o il tutore? Se lo è il curatore speciale a che titolo rimane nel processo la figura del tutore? Se il curatore speciale avesse espresso una volontà contraria alla sospensione dell’alimentazione e idratazione assistita ed il tutore avesse insistito nella sua originaria richiesta, chi avrebbe realmente fatto la volontà della rappresentata? E se la volontà della rappresentata fosse stata ascritta al curatore speciale come si dovrebbe considerare la posizione formale e sostanziale del tutore e viceversa? Mi pare che da tali interrogativi emerga un vizio di fondo: nella ultima ipotesi formulata si sarebbe creata una diacronia processuale tra il chi unico/tutore ed il chi unico/curatore speciale. Ed ancora se la nomina del curatore speciale è stata originata da un conflitto di interessi, anche solo potenziale, tra il tutore e la sua pupilla, l’istanza giudiziale è rivolta al riconoscimento di un diritto che è del tutore e della sua rappresentata sebbene con diversi postulati o della sola rappresentata? E se è nel senso dell’ultima considerazione, ripeto, a che titolo il tutore rimane nel processo se non è portatore di un interesse giuridico proprio? Tanto più, come detto prima, che il curatore speciale non è parte (o chi unico) in senso tecnico perché non riveste una posizione autonoma e distinta rispetto all’interessata-rappresentata, non è portatore di una propria situazione anche di mero interesse, si può dire che sia uno strumento integrativo-funzionale di controllo all’esercizio e svolgimento dell’azione da parte del tutore. A mio avviso è uno strumento di integrazione soggettiva e funzionale della rappresentanza processuale, ma sempre nell’ambito della medesima compagine soggettiva. Esemplificando, alla base di tutto c’è l’incapace-rappresentato/ta, i cui interessi vengono esercitati da un tutore e quando si profila il rischio di un conflitto di interessi c’è il curatore che non subentra al posto del tutore, non si sostituisce allo stesso, ma lo affianca sempre per la cura degli interessi della medesima rappresentata. Se non è parte il P.M. a più forte ragione non può esserlo il curatore speciale.
7.- La cassazione tra diritto vivente e scuola del diritto libero: un nuovo giusnaturalismo?
“Iscrizione della legge. Mosè e gli anziani d’Israele diedero Quest’ordine al popolo: Osservate
tutti i comandamenti che oggi vi do. Quando avrete passato il Giordano . …, erigerai grandi pietre e le intonacherai di calce. Scrivi su di esse tutte le parole di questa legge, ….”
De, 27. 1.4
Il processo nella sua trialità è il luogo in cui massimamente si realizza il diritto attraverso un’operazione di astrazione ed adattamento dal generale al particolare, dall’indeterminato al determinato. La pretesa giuridica ipoteticamente rappresentata nella domanda viene svelata, se ed in quanto esistente, attraverso il movimento delle norme processuali che, sollecitate dall’azione, si mettono in moto e come per il mosaico o per la catena di montaggio, la materia grezza, disordinata o disomogea, gradatamente e progressivamente prende forma e corpo e diventa il prodotto, l’opera finale, così come il processo giuridico nel suo divenire fasico termina con il provvedimento finale (sentenza, ordinanza, decreto). La decisione finale raccoglie e contiene tutto il giudizio dall’inizio alla fine. In essa e attraverso di essa si percorre l’iter che da una rappresentazione ipotetica del diritto preteso nella domanda si perviene alla individuazione della norma e di quella norma particolare. Alla stessa stregua della catena di montaggio che nell’esecuzione di un quadro progettuale organizza i materiali informi e li ordina in modo da conformarli al progetto, il processo, costituito da norme strumentalmente funzionali all’interpretazione per l’accertamento della situazione sostanziale, conferisce certezza alla ipoteticità di questa ultima. La sentenza è il risultato delle varie fasi del procedimento e, come la macchina che esce dalla catena di montaggio, nel suo racchiudere l’intero giudizio, deve rispecchiare il progetto, affermare il diritto: l’interpretazione del mondo nel senso e nel significato suo proprio. La decisione finale è la cesura del sistema giuridico e in essa diritto sostanziale e processo si ricompongono nell’unità ordinamentale. L’autonomia ed il collegamento tra diritto sostanziale e processuale, postulati dall’art. 24 Cost., non si annullano, ma si comprendono e si compendiano nell’unicità del provvedimento finale in un rapporto che si può definire di consunstanzialità.
Il risultato finale: la decisione giudiziale – o la macchina uscita dalla catena di montaggio – non può essere che data da quegli strumenti propri, atti alla produzione non di qualsiasi decisione, non di qualsiasi macchina, ma di quella decisione e di quella macchina. Così come la catena di montaggio ha una sua funzionalità variabile a seconda del tipo di macchina da produrre, altrettanto il processo ha i suoi riti non tutti sempre adatti per l’accertamento di qualsiasi situazione sostanziale. Il diritto statuito nella decisione finale è il risultato dell’applicazione delle norme processuali come interpretate: esso è l’interpretazione del mondo a sua volta risultante da altre interpretazioni del mondo e, questo movimento, indietro chiamato “gioco ermeneutico”, varia a seconda del rito perché con esso variano gli strumenti. Questo gioco ermeneutico del comprendere e dell’interpretare presuppone qualcosa di statuito in modo da valere obbligatoriamente e vincolativamente come legge[109].
Senza qualcosa da interpretare si finisce per creare la norma e la giurisdizione diventa – come detto altrove – “mitopoiesi”. Ma la “mitopoiesi” – come pure è stato detto – genera una sospensione teleologica dell’etica giurisdizionale e della stessa giurisdizione.
Al giudice appartiene il momento della validità[110].
Se il giudice compie valutazioni, il processo diventa un’altra cosa[111]. Si attenua la sua strumentalità e, da luogo produttivo di senso e di mediazione tra contrapposti interessi e diritti e di adattamento della regola al caso concreto, si trasforma in luogo di affermazione dei sistemi parziali della società: la regola non sarebbe frutto di un’interpretazione del mondo, ma di un’interpretazione di alcuni sistemi socialmente dominanti[112].”Le legislazioni sono il risultato di riflessioni protratte nel tempo, mentre le sentenze vengono al momento, e di conseguenza è difficile che i giudici possano stabilire correttamente ciò che è giusto e opportuno. Tra tutte, però, la ragione più importante è il fatto che il giudizio del legislatore non è rivolto al caso particolare, ma riguarda il futuro e l’universale, mentre chi è (…) giudice decide di questioni presenti e specifiche: costoro spesso sono influenzati da amicizie, odio e interesse privato, sicchè non possono vedere il vero in modo adeguato, ma il loro giudizio è oscurato dal piacere e dal dolore personale.”[113].
L’interpretazione del mondo del giudice è un’interpretazione del mondo già data in un quadro generale ed astratto che deve essere specificato e adattato.
La funzione giurisdizionale, come più volte ricordato, è appunto quella di mediare dal generale, contenuto in un quadro normativo astratto, al particolare, adattando la previsione legislativa, per sua natura imprecisa ed indeterminata, al caso singolo. La dialettica tra legislatore e giudice è agevolata dall’argomentazione giuridica che permette di selezionare i significati dei principi del diritto, luoghi dell’argomentazione giuridica, che rifiuta ogni soggettivismo del giudice e si riconosce nell’equità. Il lessico dell’equità descrive l’universale nel particolare, tanto che la giustizia percorre un itinerario veritativo discendente, che nel toccare tutti i singoli punti che caratterizzano le diverse interpretazioni di parte (i vari “chi unico”), li raccorda in un’unica soluzione che non potrebbe che essere quella[114]. Ma, il particolare deve esprimere l’universale come unica rappresentazione di tutte le istanze, di tutte le interpretazioni in esse prospettate che costituiscono un’unica cosa in un’altra cosa[115].
La mediazione tra opposte rappresentazioni del generale da parte del giudice conduce al rischio dell’arbitrio e mette in crisi la “certezza del diritto”. L’obiezione che sorge facilmente è quella di non poter fare a meno di constatare che nella vita sociale si riscontrano la diffusione di interessi e di pratiche a cui nessuno sarebbe disposto a dare valore e carattere giuridico. Lo Stato combatte il traffico di droga e l’evasione fiscale come pratiche giuridicamente riprovate e tuttavia se ne riscontra una vasta diffusione.
La giurisdizione non è proiezione diretta del corpo elettorale[116]. L’art. 101 Cost. assoggettta la giurisdizione alla legge quale atto di sovranità e la sentenza pronunciata in nome del popolo rafforza il ruolo del giudice come strumento esecutivo-realizzativo della sovranità: è un ausiliario della sovranità[117].
Se la valutazione dei fattori evidenzianti del diritto spetta al momento della sovranità, nel moderno stato di diritto di derivazione romanistica o di “civil law”, la ragione risiede fondamentalmente nel processo identificativo e di immedesimazione dell’organo legislativo nel corpo sociale attraverso il sistema rappresentativo. Per ciò la legge è atto politico e la sentenza no. La sentenza è atto di affermazione della sovranità data perché pronunciata in base alla legge.
In definitiva, quindi, la domanda è la seguente: di fronte ad una pretesa dal o di diritto per il diritto che – come più volte ripetuto – presuppone la mancanza totale o parziale di una disciplina legislativa di un determinato fatto umano, cosa può e cosa deve fare la giurisdizione.
Deve comunque ed in ogni caso dare una risposta satisfattiva per il divieto del non liquet?
E se la risposta è affermativa con quali strumenti e modalità anche di senso sarà data o potrà essere data?
Il problema ricade ancora una volta sull’interpretazione. Ma quale interpretazione? Innanzitutto è proprio vero che la giurisdizione deve, sempre e comunque, dare una risposta ad ogni pretesa? E che la risposta affermativa sia dovuta al divieto di non liquet?
Certo la giurisdizione in presenza di un’istanza non può sottrarsi dall’emettere una decisione e l’art. 12 Preleggi soccorre in aiuto mediante il ricorso all’analogia e ai principi generali. Ciò non può voler dire che ogni istanza che contenga anche un “capriccio” o un bisogno più o meno personale deve avere necessariamente una risposta positiva, vuol dire che il giudice deve sempre pronunciarsi su qualsiasi domanda. La risposta può essere il rigetto nel merito per inesistenza della situazione giuridica sostanziale dedotta in giudizio. Ma può essere anche una risposta affermativa se la situazione dedotta trova riscontro in un caso simile o in una materia analoga o facendo appello ai principi generali[118]
D’altronde nei primi tentativi giudiziali – come per altri casi – i giudici di merito avevano dichiarato il ricorso inammisibile, così altrettanto prima di Cass. n. 21748/2007, l’istanza era stata respinta per la mancanza di una normativa organica e perché trattasi di materia coperta da riserva di legge[119].
Non mi pare che, nelle ricordate ipotesi, si sia mai parlato di denegata giustizia[120].
Né credo che la giurisdizione debba sempre e comunque trovare la “giusta soluzione del caso” in tutte le ipotesi ed a tutte le pretese per delusioni portate al suo cospetto se la questione oggetto della pretesa non ha una preventiva risposta ordinamentale.
La “giusta soluzione del caso” non sarebbe “giusta” se la soluzione non provenisse dal sistema, ma venisse rinvenuta extra ordinem[121].
La teoria del c.d. “diritto vivente” è accettabile nella misura in cui si limiti ad adeguare il sistema all’attualità, come interpretazione adeguatrice e di attualizzazione della norma, non certamente quando scrive ex novo la norma[122].
Il problema del quid iuris e dei procedimenti attraverso i quali esso si determina risale nel tempo. La proposta più radicale proviene dal c.d. movimento del diritto libero[123]. Secondo questa scuola di pensiero il giudice sarebbe autorizzato, in caso di lacune legislative, a determinare il quid iuris e questa determinazione sarebbe il risultato di una libera ricerca degli interessi sociali risultanti dall’analisi sociologica. E addirittura, negli intendimenti più estremi, la considerazione degli interessi reali in gioco potrebbe legittimare una decisione contra legem[124]. Ma, l’esempio fatto più sopra sulla diffusione di pratiche giuridicamente riprovate induce ad un’ulteriore obiezione: distinguere negli interessi e nelle pratiche sociali o nei sistemi funzionali economico-sociali ciò che è buono da ciò che è patologico introduce un criterio di valutazione che non solo rompe il nesso tra fatto e diritto, ma implica la risoluzione del problema della legittimazione della valutazione e delle forme che ne deve assumere. Di qui, l’indefettibilità della veste formale del diritto. D’altronde volendo prendere in considerazione il diritto consuetudinario, il giudice dal fatto, dall’usus, enuclea l’opinio iuris ac necessitatis, cioè la norma. Ma proprio perché la consuetudine, sebbene dotata di una certa stabilità, non è sufficientemente oggettivata, ma si oggettivizza attraverso quella valutazione del fatto che conduce alla enucleazione del valore e della norma, gli ordinamenti moderni propendono per un diritto scritto.
Poiché ogni pratica sociale e del costume, come ogni sollecitazione proveniente dai sistemi funzionali dell’economia, che condizionano e coinvolgono anche questioni solo apparentemente indifferenti, come questioni etico-sociali, attraverso la monetizzazione di tutto, dal tempo ricreativo alla produzione farmaceutica e sanitaria, alla gestione dell’inizio e della fine della vita, può aspirare alla giuridicità, si impone una cernita, un “discrimen”, tra ciò che è buono e ciò che non lo è e correlativamente l’autorità chiamata e quindi responsabile ad operare tale cernita e dei modi di compimento della stessa.
Una diversa e più condivisibile impostazione sarebbe quella proposta da Roscoe Pound, molto simile a quella più indietro prospettata, dell’ingegnere sociale,
come il “bricoleur”, che dai mezzi formali dati dal sistema, compone il mosaico degli interessi sociali allargandolo all’intero insieme dei bisogni sociali[125].
Tirando le fila del discorso il giudice e la giurisdizione sono il “legislatore” del particolare, ovvero del caso singolo, per cui la valutazione rimessa totalmente alla scelta del giudice – senza un minimo dato formale – non solo minerebbe la certezza del diritto in quanto ognuno non saprebbe mai con sicurezza come comportarsi prima di una decisione, ma comprometterebbe non poco il principio di uguaglianza.
Non senza dimenticare che la veste formale del diritto è una conquista di civiltà: dire preventivamente ai cittadini ciò che è lecito e ciò che non lo è: essa è garanzia di libertà e di uguaglianza.
Il diritto naturale, che pure nell’ambito di una concezione del diritto libero, non si escluderebbe ma anzi vi entrerebbe giocoforza vuoi come guida interpretativa, vuoi come integrazione del “pescato” tra gli interessi sociali in gioco, non sarebbe un approdo sicuro, attesa la sua insita ambiguità portata dalla sua controvertibilità[126].
Esso è stato fonte di ispirazione delle moderne Costituzioni e di quei principi generali codificati un po’ ovunque come nel nostro art. 12 delle Preleggi, ma poi abbandonato dalle moderne concezioni del diritto[127].
In definitiva, poiché non tutto quello che proviene dalla comunità sociale o che da questa viene praticato è giuridicamente meritevole di apprezzamento, la valutazione e la cernita dei fattori evidenzianti è compito dell’autorità investita per tale funzione attraverso quella investitura rappresentativa e identificativa che meglio permette di cogliere il generale e di mediare tra opposte rappresentazioni del generale. Spetta al giudice, mediare dal generale al particolare, attraverso l’ermeneutica adattare la fattispecie astratta al caso singolo, attività questa non meno delicata, importante ed affascinante della prima. Mi piace concludere con un esempio poetico, molto simile a quello dell’ingegnere-“bricoleur” appena richiamato e del quale si è parlato più indietro; esso riguarda l’adattamento e l’emendatio nella versione di Carmelo Bene dell’inno ad Arimane di Giacomo Leopardi[128]. Ebbene l’interpretazione giudiziale dovrebbe essere proprio come l’operazione di completamento dell’inno leopardiano. L’adattamento alla recitazione realizzato da Carmelo Bene che dal complesso letterale e semantico del testo, cogliendone il senso compiuto, tagliando un po’ qua e un po’ là e aggiungendo o cambiando qualche parola o frase incompiuta, ha fatto emergere la forza e la potenza struggente, evocativa ed esistenziale di quei versi.
Carmelo Bene ha dato vita, vigore e forza al testo leopardiano. La Cassazione ha decretato in un luogo non luogo la nientità del diritto. Carmelo Bene parla la lingua di Leopardi; la Cassazione parla una lingua non sua; parla inglese, francese e richiama e attinge a mezzi e sistemi fuori dall’ordinamento, non a motivazione, ma a giustificazione del proprio operato.
La scelta del rito camerale (unilaterale) non è il luogo terzo ed omogeneo per il parto della norma da applicare al caso concreto, tanto più che si è svolto a contraddittorio unisoggettivo (con un unico “chi unico”)[129]
La norma giurisdizionale del caso concreto deve, a sua volta esprimere validità assiologica universale[130], nel senso che quella interpretazione e quel risultato prodotto rispecchi la sovranità, cioè il sentire storico della comunità sociale, la comunità che si rispecchia in quella interpretazione.
Il nichilismo giurisdizionale o applicativo risiede nel parto di una norma (eutanasica) in un (reparto)-luogo che non è quello proprio, sebbene ritenuto tale attraverso il mascheramento della nomina di un curatore speciale e di una norma (eutanasica) che non è prevista, ma viene mascheratamente considerata prevista, anche se riprovata dal sistema[131]. Non rispecchia il mondo e sebbene, sia norma del caso singolo, non esprime un valore universale secondo i valori della Legge fondamentale ed è scollata dal tessuto sociale. E’ sospensione teleologica della giurisdizione. E’ a-temporalità del tempo: tempo come orizzonte comprensibile di ogni comprensione; quindi, sospensione della comprensione, del giudizio.
E’ forse: meta-”oltre”-fisica del processo?
*Cultore Diritto Processuale civile – Un. Magna Graecia – CZ-Comitato Scientifico Il Foro Vibonese
[1] Il riferimento è a: Cassazione del 16/10/2007, n. 21748.
[2] Il nichilismo giuridico e sue implicazioni nel diritto processuale civile. Schizzi di ragionamenti, in www.Judicium.it, Processo civile, 13/1/2015, 17 ss.
[3] E’ il titolo del famoso libro di S. Kirkegaard, Timore e tremore, a cura di Carmelo Fabro, Milano, 2013.
[4] Leggere come raccogliere è nel senso di Heidegger, espresso in una lettera del 1950 a E. Staiger, riprodotta in E. Staiger, Die Kunst der Interpretation, Zurich 1955, 48.
[5] Ma che cos’è il senso? E cosa significa “senso” in relazione al processo? Il senso è nella ricerca stessa del senso. Il senso del processo, in una prima approssimazione, è costituito dalla ricerca problematica della verità: nella dinamicità del suo svolgimento e in tutto ciò che in esso accade fin dall’inizio e nell’inizio; nei singoli atti e nelle singole attività e nella loro complessa e complessiva unitarietà; nel linguaggio e nella sua comunicazione; insomma il concetto di processo. Su cos’è il “senso”, v.: Jan Patocka, Saggi eretici sulla filosofia della storia, Ed. it. a cura di M. Carbone, Torino, 2008, 59 ss. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. di A. Marini, Milano, 2014, 314 ss., 327 ss., 332/333 ss. 437 e 519, 604 ss.
[6] Essa, nel pieno rispetto della vicenda umana, si è rivelata una fonte ispiratrice di riflessioni sul e intorno al processo. Ometterò qualsiasi riferimento e tanto meno farò alcun paragone con l’altro diverso drammatico caso Welby anche per la diversità giuridico-processuale. Con specifico riferimento alla vicenda Englaro: A. Morelli, Tra Babele e il nulla. Questioni etiche di fine vita “nichilismo istituzionale” e concezioni della giustizia, in Thanatos e nomos, Napoli, 2009, 159/173. T. Groppi, Il caso Englaro: un viaggio alle origini dello Stato di diritto e ritorno. Seminario ASTRID, Il potere, le regole, i controlli: la Costituzione e la vicenda Englaro, Roma 5 marzo 2009, in www.astrid.eu, 1/13. M.E. Bucalo, Profili costituzionali rilevanti nell’ambito del “caso Englaro” e la necessità della disciplina sul “fine vita”, in Thanatos e nomos, Questioni bioetiche e giuridiche di fine vita, Napoli, 2009, 37 ss. R. Caponi-A. Proto Pisani, Il caso Englaro: brevi riflessioni dalla prospettiva del processo civile, in www.associazionecostituzionalisti.it, § 5.
[7] Groppi, Il caso Englaro: un viaggio alle origini dello Stato di diritto e ritorno. Seminario ASTRID, Il potere, le regole, i controlli: la Costituzione e la vicenda Englaro, Roma 5 marzo 2009,cit., 1/13. Bucalo, Profili costituzionali rilevanti nell’ambito del “caso Englaro” e la necessità della disciplina sul “fine vita”, in Thanatos e nomos, Questioni bioetiche e giuridiche di fine vita, cit, 37 ss. Caponi-Proto Pisani, Il caso Englaro: brevi riflessioni dalla prospettiva del processo civile, cit., § 5. Morelli, Tra Babele e il nulla. Questioni di fine vita, “nichilismo istituzionale” e concezioni della giustizia., cit. 160 ss. A. Porciello, Eutanasia e principi fondamentali: la costituzionalizzazione del dilemma etico. In Thanatos e nomos, Questioni bioetiche e giuridiche di fine vita, Napoli, 2009, 10. P. Carnuccio, Il caso di Eluana Englaro e il dirtto ”umano”. In Thanatos e nomos, Questioni bioetiche e giuridiche di fine vita, Napoli, 2009, 19 ss.
[8] 8Con la filosofia di Nietzsche il nichilismo viene pensato come “nichilismo classico”: esso significa liberazione dai valori finora validi, come liberazione per una trasvalutazione di tutti i valori: F. Nietzsche, Così parlò Zaratustra, Roma, 1980. Id., Umano troppo umano, Roma, 1979, 177. Id., Il nichilismo europeo, Frammenti di Lenzerheide, Milano, 2006. La conoscenza e la diffusione del pensiero nicciano si deve a Heidegger, Il Nichilismo europeo, III ed. 2010, Milano. Fuori dalla Germania come la Francia è stato oggetto di riflessione da parte di pensatori esistenzialisti come Jean-Paul Sartre ne “L’essere e il nulla” (1943) ed Albert Camus ne, “l’Uomo in rivolta” (1951). Nella cultura italiana: E. Severino, Essenza del nichilismo, Roma-Bari, 1999. G. Vattimo, Nichilismo ed emancipazione. Etica, politica, diritto, Milano, 2003, 8, ha inteso valorizzare in senso positivo le potenzialità emancipative del nichilismo (pensiero debole) “(…) già tentare di modellare, leggi, costituzioni, provvedimenti politici ordinari, sull’idea di una progressiva liberazione di norme e regole da ogni preteso limite “naturale” (e cioè ovvio per chi detiene il potere) può diventare un progetto politico positivo”. E. Junger-Heidegger, in Oltre la linea, (1949/1955), Milano, 2004. Heidegger, Che cos’è metafisica, a cura di F. Volpi, Milano, 201/2010, 62/63 e 74. Id., Il nichilismo europeo, cit., 50 ss. Junger, Trattato del ribelle, Milano, 1990, 51/55. V.C. Galli, Prefazione a K. Lowith, Il nichilismo europeo. Considerazioni sugli antefatti spirituali della guerra europea, trad. it., Bari, 2006, IX, XI, XIII. L. Kolakowsk, Orrore metafisico, 1988, trad. it. a cura di B. Morcavallo, Bologna, 2007, 113. F. Vercellone, Introduzione a Il nichilismo, Bari 2003, 156. Volpi, Il nichilismo, Bari, 1996, 4. Sulla rinascita del Dionisiaco nelle società del benessere, cfr.: G. Lipovetsky, Una felicità paradossale. Sulla società dell’iperconsumo, Cortina, Milano, 2007, 171. Sulle difficoltà di interpretare il nichilismo a causa della “molteplicità delle posizioni e della loro contraddittorietà, per cui è quasi impossibile concordare una definizione unitaria accettabile da tutti”: A. Molinaro, L’interpretazione del nichilismo, in A.M. (eur.), Interpretazione n. 10, Roma, 1986. Sul concetto di società liquida cfr.: Z. Bauman, Danni collaterali, Roma-Bari, 2011, 40 ss. Sul piano giuridico il “nichilismo giuridico ontologico”, secondo il quale il diritto non può reclamare “verità”, ma si fonda soltanto sulla volontà più forte, capace di imporre l’ordinamento giuridico e l’ordine del mondo ad essa congeniali; “il diritto è volontà di potenza” “come aveva visto Nietzsche”: N. Irti, in C. Magris-Irti, La legge e il nulla, in Corr. Sera, 6/4/2007, 47. B. Romano, Fondamentalismo funzionale e nichilismo giuridico. Postumanesimo “noia”globalizzazione (Lezioni 2003/2004), Torino, 2004. Id., Funzione del nichilismo giuridico nel nichilismo finanziario, estrapolato da www.digef.uniroma1.it/…/romano/…didattico/introduzione-romano_pdf, 12/14, Id. sulla “Rivista di filosofia del diritto-Journal of legalPhilosophi, 2, 2012, 375/387. G. Bianco, Nichilismo giuridico (civile), in Digesto, Discipline privatistiche, Sezione civile, Aggiornamento, II, Torino, 2007, 800 ss. V. Scalisi, Dalla Scuola di Messina un contributo per l’Europa, in Riv. dir. civ., 1/2012, 22. Id. Categorie e istituti del diritto civile nella transizione al postmodernismo, Milano, 2005, 78/79. A. Punzi, Esiste una via d’uscita dal nichilismo?In dialogo con Bruno Romano e Natalino Irti, in i-lex, dicembre 2010, numero 11, Riv. quadrimestrale on.line: www.i-lex.it, 446/447. F.C. Gallo, Una critica del nichilismo giuridico, in www.accademiadelle scienze.it/media/153, Acc. Sc. Torino – Atti sc. Mor. 139/140 (2005-2006), 3/35, 31 ss. Irti, Il nichilismo giuridico, Roma-Bari, 2004. Id. in Enc. It., App. VII, XXI secolo, Roma 2006. M. Barcellona, Critica del nichilismo giuridico, Torino, 2006. Mi permetto inoltre di rinviare al mio: Il nichilismo giuridico e sue implicazioi nel diritto processuale civile. Schizzi di ragionamenti., cit., 1/35.
[9] T. Martines, Diritto costituzionale, Messina, 1976, 89-91. P. Barcellona, Formazione e sviluppo del diritto privato moderno, Napoli, 1987, 101 ss., 115 e 134 ss. G. Ubertis, Profili di epistemologia giuridica, Milano, 2015, 68 ss. A. Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche, Parte prima, il concetto di diritto, ed. III, Milano, 1988, 424 ss. Barcellona, Critica del nichilismo giuridico, cit., 176 ss. Il nichilismo giuridico costruisce l’interpretazione come potere e l’interprete è colui che ha il potere: il potere di affermare la tesi più forte denigrando e invalidando quella degli altri, spostando la contesa nel campo politico. Cfr. P.G. Monateri, Interpretazione del diritto, in Digesto delle Discipline Privatistiche, sezione civile, X, Torino, 1993, 53. A. Cavallaro, Terzietà del giudice e creatività della giurisprudenza: il valore del precedente, in i-lex, 11, 2010, 455-466 (www.i.lex.it).
[10] J. Hruschka, La comprensione dei testi giuridici, Napoli, 1983, 51 ss., 73 ss. J. Esser, Precomprensione e scelta del metodo sul processo di individuazione del diritto, Napoli, 1983.
[11] La “cultura radicale” muovendo da una concezione individualistica rinchiude la persona nell’isolamento triste della propria libertà assoluta, slegata dalla verità del bene comune e da ogni relazione sociale. Di qui il rischio di un diritto imposto dalla volontà di potenza, vuoto di contenuto e frutto di mera tecnica, leggi che trattano contestualmente materie del tutto eterogenee; l’essere non più unitariamente considerato ma destrutturato in una serie di “io” o di “sé” incasellato in una sequela di sistemi funzionali dove tutto si riduce a calcolo funzionale; il processo luogo della affermazione ex post della forza vincente. G. Magrì, Morte dello Stato Sovrano o estinzione del diritto, in Rassegna degli avvocati italiani, n. 2/2007, Milano, 58. Romano, Scienze giuridiche senza giurista. Il nichilismo perfetto, Torino, 2006, 106/107 ss. e 117. Id. Le funzioni del nichilismo giuridico nel nichilismo finanziario, cit., 11 ss.
[12] Proto Pisani, Lezioni di Diritto Processuale Civile, Napoli 2012, 6. Id. Sulla residualità del processo a cognizione piena: “Verso la residualità del processo a cognizione piena?”, in Foro it. V, 2005, 54 ss
[13] Romano, Le funzioni del nichilismo giuridico nel nichilismo finanziario, cit., 10 ss. Irti, Teoria generale del diritto e problemi del mercato, in Riv.dir.civ., 1, 1999. F. Galgano, Diritto ed economia alle soglie del nuovo millennio, in Contratto impresa, Padova, 2000, 199. Proto, Il nichilismo giuridico e sue implicazioni nel diritto processuale civile. Schizzi di ragionamenti. cit., 8 ss.
[14] tempi del processo sebbene obiettivamente lunghi in Italia, in buona sostanza, sono un pretesto perché di fronte alla fluida velocità dell’economia non c’è ragionevole e celere durata che tenga. Non è la durata temporale del processo, ma è il sistema processuale in sé, come strumento di risoluzione dei conflitti, che è di ostacolo alla velocità e liquidità dei sistemi economici dell’economia e della finanza: con un semplice clik in una frazione di secondo muovono flussi di capitali e di merci da un capo all’altro del mondo. Romano, Le funzioni del nichilismogiuridico nel nichilismo finanziario, cit., 11 ss. Sul concetto di società liquida: Bauman, Danni collaterali,cit., 2011, 49 ss e 79 ss.
[15] “In un perfetto sistema burocratico – che, in termini di governo, rappresenta il governo di nessuno – non c’è spazio per procedimenti giuridici: si tratta solo, eventualmente, di rimpiazzare un ingranaggio difettoso con uno migliore. Quando Hitler confessò di sperare che un giorno, in Germania, fosse considerato un disonore fare il giurista, queste sue parole erano perfettamente coerenti con il sogno di un Paese ridotto a un perfetto sistema burocratico.” Hannah Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, Torino, 2006 e 2015, 13.
[16] Barcellona, Critica del nichilismo giuridico,cit., 176.
[17] 17G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it. con testi a fronte di V. Cicero, Milano, 2006, § 226, 385
[18] Barcellona, Critica del nichilismo giuridico,cit., 138 ss.
[19] Esso è considerato il luogo autentico e primario della “verità”. L’ “in-quanto”, come funzione che rinvia ad una spiegazione fenomenica, è costitutivo del comprendere. Ciò che è enunciato è una modo derivato della spiegazione, un “giudizio” orientato sul fenomeno della “valenza” come validità obiettiva, universale. L’ “in-quanto” della spiegazione circospettiva è esistenzial-ermeneutico e si differenzia dall’ “in-quanto” apofantico: il primo è un “giudizio” sulla “valenza” dotato di obiettività e validità universale al quale si perviene mediante il movimento graduale dello svelamento nella comprensione-comprendente; il secondo nella visione aristotelica del logos – porta in sé una affermazione, “apòphasis” – positiva o negativa, vera o falsa, che è tale fin dall’origine. L’accertamento degli enunciati fattuali è la dimostrazione-comunicazione all’esterno delle strutture di svelamento; gli strumenti attraverso cui si perviene a ciò che è già dischiuso, compreso, o “in-quanto” nella sua funzione di appropriazione del compreso: la fissazione dello “stato dei fatti”. Ma, a sua volta, l’accertamento degli enunciati, avendo ad oggetto gli strumenti operativi dello svelamento, costituisce una comunicazione all’esterno del modo con cui è avvenuta l’appropriazione del compreso. Quindi, l’accertamento degli enunciati è anch’esso un enunciato e segnatamente un enunciato-enunciativo-enunciante e come tale segue lo stesso movimento del comprendere attraverso lo svelamento di ciò che deve essere spiegato. L’impostazione seguita nel testo è suggerita da Heidegger, Essere e tempo, cit.,
[20] Sul concetto di prova, v.: M. Taruffo, Prove (in generale), in Digesto, Discipline privatistiche, Sezione civile, XVI, Torino, 1997, 4. Id., Le prove dei fatti giuridici, Nozioni generali, Milano, 1992, 301 ss.
[21] G. Monteleone, Diritto processuale civile, Padova, 2005, 269. Su diritti indisponibili e prova, 268, specialmente nota 35.
[22] La migliore dottrina ha già messo in evidenza il significato della locuzione costituzionale non come sinonimo di “giudice precostituito” bensì come “luogo naturale” come collegamento fisico-spaziale tra il giudice e la comunità sociale. Ubertis, “Naturalità” del giudice e valori socio-culturali nella giurisprudenza, in Riv.it.proc.pen., 1977, 1062. Nello stesso filone di pensiero: Proto, Fase presidenziale nel giudizio di separazione giudiziale: la questione sulla competenza territoriale ed i poteri presidenziali, in Giur. merito, Milano, 06/2010, 1554 ss.
[23] Barcellona, Critica del nichilismo giuridico, cit., 262. L’insigne giurista nel rispondere a Romano cita la locuzione “chi unico” per indicare il soggetto parlante portatore di una pretesa dal diritto. Mi permetto di adottare la medesima terminologia per indicare in senso ontologico la nozione di “parte processuale”. Questa a sua volta rinvia ad un centro di interesse o ad un soggetto titolare del rapporto dedotto in giudizio. La parte nel processo non coincide necessariamente con quella di soggetto-individuo agente. Parte processuale viene considerato anche chi agisce nei casi di sostituzione processuale ex art. 81 c.p.c. in nome proprio per un diritto altrui, o il tutore che agisce in nome proprio ma nell’interesse del rappresentato. Senza approfondire la natura di vera parte del rappresentante e del curatore speciale, latu sensu qui direi che costituiscono un’unità soggettiva complessa e funzionale in un terzo termine. Nel processo soggettivamente complesso come nei casi di litisconsorzio necessario o nei casi di integrazione successiva del contraddittorio, attraverso le varie forme di intervento ex artt. 103/107 c.p.c., si possono avere più soggetti-individui portatori di un interesse comune o di singoli interessi accomunati dalla medesima finalità inclusi nel concetto di “parte” in contrapposizione ad un altro soggetto-individuo o ad altri nella medesima opposta posizione processuale. Di qui la “polemica” nella dottrina processualcivilista tra parte e giusta parte (soggetti che compiono gli atti e soggetti destinatari del provvedimento). La nozione di “chi unico” mi pare possa esprimere meglio e più compiutamente non solo l’unitarietà dell’interesse oggetto della pretesa da parte di uno o più soggetti titolari della stessa in senso sostanziale e processuale ma anche l’unità di senso di cui è portatrice l’istanza. Rinviando ogni approfondimento ad un’altra specifica occasione, qui occorre anticipare che il “chi unico” è produttivo di senso perché evoca il concetto sul piano fenomenologico di “essere”, connotandolo e conferendogli un significato (esistenziale) che lo colloca storicamente in un certo spazio e in un certo tempo. Esso è un modo con cui l’uomo si determina nel mondo ed il processo è un fenomeno-strumento del mondo ed è luogo del mondo. Il processo riproduce il mondo sia pure per la parte cognitiva oggetto del giudizio. L’essenza dell’uomo è l’esistenza: il “chi unico” è l’esistenza che si consuma nel processo e come tale ne costituisce l’essenza stessa essendo il processo fenomeno umano: dell’uomo per l’uomo. L’in-essere conducendo al riconoscimento della comprensione, della interpretazione (articolazione interna della comprensione), a cui si aggiunge il discorso come concretarsi dell’interpretazione, esprime una situazione affettiva: un modo di trovarsi; di sentirsi in questo o in quel modo; la tonalità affettiva nella quale capita di essere; lo strepitus fori. Esso è portatore di responsabilità: questa ultima, a sua volta, esige la “singolarità insostituibile”. L’uomo responsabile è un “io”; un individuo che non si nasconde, anzi si confronta con la morte, con il nulla. Esso, “chi unico”, in quanto “singolarità insostituibile”, risponde di ciò che si fa, si dice, si dà (J. Derrida, Donare la morte, Trad. Luca Berta, Milano, 2008, 88). Quindi, “chi unico” come “in-essere” in quanto essere nel mondo e segnatamente nel micro-mondo del processo. Ma “chi unico” anche in contrapposizione a civiltà tecnica che con i suoi effetti di estetismo e di individualismo “livella” e neutralizza la singolarità insostituibile e misteriosa dell’ “io” responsabile. La civiltà tecnica è individualismo del ruolo e non della persona (Derrida, nella rilettura del pensiero di Patocka, in Donare la morte, cit., 73-74. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, a cura di Vattimo, Milano, 1976, 19 ss). Le tecnologie-guida, contribuiscono fortemente alla destrutturazione della soggettività. La nozione di “chi unico” come sinteticamente proposta evoca l’heideggerinano “esser-ci” dell’essere in quanto essere gettato, laddove gettato significa l’effettività dell’essere consegnato (Heidegger, Essere e tempo, 226). Il “chi unico”, inteso come esser-ci nel processo, da parte dell’essere, implica nell’accertamento della verità e nel conseguimento del bene della vita il coinvolgimento e la con-prensione di quelle situazioni procedimentali secondarie e strumentali alla realizzazione della situazione finale. Tali situazioni procedimentali secondarie e strumentali ineriscono direttamente ai soggetti processuali e talvolta possono inficiare la validità del processo e della situazione finale: il dovere di lealtà e probità (art. 88 c.p.c.); i doveri deontologici di non produrre in giudizio la corrispondenza tra avvocati (art. 48 CD); il dovere di non registrare le conversazioni tra avvocati senza il reciproco consenso e di non farne riferimento nel giudizio (art. 38 CD); il dovere di non usare espressioni offensive o sconvenienti (artt. 89 c.p.c. e 52 CD); il rispetto della dignità della persona nell’espletamento dei mezzi istruttori come ispezioni e consulenze (art. 260 c.p.c.), etc. Nei casi di rappresentanza, “chi unico complesso”, laddove uno risponde e decide per l’altro e il rappresentato si priva o è privato della propria singolarità la quale ne sospende la responsabilità, occorre distinguere i casi di sospensione ab origine da quelli subentrati nel corso della vita dell’individuo. Parlerei, invece, di “chi unico collettivo” nei casi di comunanza di interesse non identici e non del tutto coincidenti espressi da più soggetti-individui – come nei predetti casi di intervento – laddove vi è una relazione dialogena all’interno della medesima compagine processuale. Nell’ambito dell’esperienza processuale il “chi unico” singolo, singolo-complesso e “chi unico collettivo”, in quanto titolare della situazione sostanziale oggetto della pretesa giuridica per una delusione di aspettativa, è portatore di senso ed a sua volta generatore o produttivo di senso legato inscindibilmente alla responsabilità. Esso così inteso – in sostituzione del termine neutro e a-semantico di “parte” – induce a rileggere, in un’altra occasione, le disposizioni sulla rappresentanza processuale e sull’interesse ad agire e quelle sulla complessità soggettiva a dimostrazione che non si tratti di una mera sostituzione esteto-nominalistica. Se si preferisce parlare di parte processuale, questa sarebbe l’ente o l’essere del “chi unico” che a sua volta ne è l’essenza, la sua “internità”. Sul concetto di parte e giusta parte v.: Monteleone, Diritto Processuale Civile, III, Padova, 2002, 148; S. Satta, Diritto Processuale Civile, VII, Padova, 1973, 77. CD è riferito al Cod. deontologico, approvato dal Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 31/1/2014, pubblicato nella GU, Serie Generale n. 241 del 16/10/2014. R. Murra, Parte e difensori, in Digesto della Discipline Privatistiche, sezione civile, XIII, Torino, 1995, 264-267. Proto Pisani, “Parte (dir.proc.civ.)”, in Enc. Dir., XXXI, Milano, 1981, 917.
[24] Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria, cit., 19.
[25] Contra: Carnuccio, Il caso di Eluana Englaro e il diritto “umano”, in Thanatos e nomos, cit., 24, ritiene il consenso accertato in base a prove chiare, univoche e convincenti
[26] Il P.M. interveniente non assume la qualità di parte processuale e quindi non è un “chi unico pubblico”. Concetto ribadito da Cass. Sez. Un. 13/11/2007, n. 27145 che ha respinto il ricorso proposto dal Procuratore generale della Corte d’App. Milano avverso la decisione pronunciata a seguito del rinvio di Cass. 16/10/2007, n. 21748.
[27] G. Cricenti, Il diritto di morire, in Nuova giur. civ. comm., 2008, II, 131 ss. S. Agosta, Bioetica e Costituzione, Le scelte esistenziali di fine-vita, Tomo II, Milano, 2012, 2 ss. A. Porciello, Eutanasia e principi fondamentali: la costituzionalizzazione del dilemma etico, in Thanatos e Nomos, Questioni bioetiche e giuridiche di fine vita, Napoli, 2009, 1/17. P. Chiarella, L’eutanasia: un problema giuridico al di là del bene e del male, in Thanatos e Nomos, Questioni bioetiche e giuridiche di fine vita, Napoli, 2009, 127 ss. C. Pedrazzi, Consenso dell’avente diritto, in Enc. Dir., IX, 1961. R. Riz, Il consenso dell’avente diritto, Torino, 1979. F. Mantovani, Diritto penale, Parte Generale, Padova, 2007, 325 ss. S. Canestrari, Le diverse tipologie di eutanasia: una legislazione possibile, in Riv. it. med. leg., 2003, V, 751. G. Cassano, Accanimento terapeutico ed atti eutanasici, in Riv. pen., 2002, 947
[28] per dovere di trasparenza e completezza si impongono alcune considerazioni senza prendere parte ad alcuna concezione sul tema. La portata concettuale ed effettuale del diritto di morire è ben più ampia rispetto alla interruzione dei presidi sanitari o alla c.d. eutanasia, nel senso che in esso rientra la facoltà di porre fine alla propria vita, a prescindere dalla condizione di salute in cui uno si trovi, come il suicidio. Un primo interrogativo riguarda la portata del diritto. Se esiste un diritto di morire vuol dire che di fronte ad un tentativo di suicidio gli omnes devono astenersi dal compiere qualunque impedimento. Ma vuol dire ancora e più significativamente che chi intende passare a miglior vita può pretendere dalle strutture sanitarie di essere assistito nell’atto del trapasso: c.d. suicidio assistito. Prescindendo, come predetto, da valutazioni morali e rimanendo fermamente ancorati al diritto positivo, riterrei che l’esistenza di un diritto di tale natura desti non poche perplessità. Militano in senso negativo le disposizioni di cui agli artt. 579 e 580 c.p. da un lato e gli artt. 50 c.p. e 5 c.c. dall’altro. Per quanto riguarda il suicidio è vero che le prime disposizioni citate puniscono la condotta del terzo vietandone anche l’assistenza nella esecuzione, ma è pur vero che il consenso, al di là di essere elemento costitutivo di un’autonoma più attenuata fattispecie omicidiaria, è insufficiente ed inidoneo per disporre del bene vita. Il che condurrebbe a ritenere indisponibile il bene vita. Contra: Cricenti, cit., 131 ss. Le seconde disposizioni limitano la validità del consenso, come elemento scriminante, ai beni patrimoniali e per quelli personali limitano la validità del consenso a quegli atti che non compromettono grandemente la integrità psico-fisica. Tant’è che per i trapianti di rene – come per altri simili casi – sono state dettate apposite discipline legislative, art. 1, L. 26/6/1967, n. 458. In definitiva non è punibile chi attenta alla propria vita ma è punibile la condotta del terzo che in qualche modo ne cagiona la morte o ne agevola la esecuzione proprio perché il consenso prestato dal soggetto suicidante non è valido. Il c.d. diritto di morire non è un diritto anche perché se fosse tale ci sarebbe stata una tutela funzionale alla sua realizzazione. Di contro il soggetto che vuole suicidarsi deve fare tutto da solo e non può invocare l’intervento pubblico o privato di alcuno. Se non è valido il consenso per il terzo, il bene è indisponibile perché l’atto di disposizione si manifesta con il consenso. Il consenso è l’atto dispositivo. Sicchè la vita non è un bene disponibile perché il consenso non è valido per disporne e l’ordinamento lo vieta sanzionandolo. La disposizione è sempre nei confronti di un altro da sé o di un terzo. Per se stessi non si può parlare di consenso in senso tecnico-giuridico come inteso dalla legge: io non devo deliberare o consentire a me stesso di andare a passeggio o di ascoltare la musica, di alzare un braccio o di farmi una carezza; sono atti vitali, espressione del mio essere vivo, di esistere, quindi, attività espressiva ed esplicativa della vita esistenziale in quanto tale; l’esser-ci heideggeriano. In tale ambito rientra anche l’atto contro se stessi come il suicidio. Ma ritornando al consenso vietato per gli atti dispositivi della vita, detto consenso è importante perché innanzitutto non permette l’eutanasia, poi perché permette di stabilire il confine tra l’intrusione (vietata) del terzo e quella relativa al rifiuto di ricevere le cure e l’assistenza del paziente. In tale quadro di riferimento, alla luce del diritto positivo, con riferimento alla fine vita in tema di salute, la dottrina e la cassazione ritengono di individuare il diritto di porre termine alla propria vita per chi si trovi in condizioni di coma irreversibile massimamente negli artt. 2, 13 e 32 Cost. e nell’art. 8 CEDU. Segnatamente nel principio di autodeterminazione – libertà negativa – risiederebbe il diritto di porre fine alla vita tenuto conto, altresì, dell’ultimo periodo dell’art. 32 Cost. laddove si afferma che, la legge che obbliga ad un determinato trattamento sanitario, in nessun caso, può violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. Ma un conto è chiedere la sospensione delle cure affidandosi al decorso naturale, altro è, ricorrendo all’intervento di un terzo, chiedere il distacco o la sospensione definitiva di strumenti atti al sostegno vitale senza i quali è morte certa. Questo ed altri interrogativi a mio avviso rimangono. Per una trattazione completa anche sul consenso e le variegate sfaccettature che vi si annidano, cfr. Agosta, cit., 58, 159 ss., 239 ss. Cricenti, Il diritto di morire, cit., 131 ss
[29] Cricenti, Il diritto di morire, in Nuova giur. civ. comm., 2008, II, 131 ss. Porciello, Eutanasia e principi fondamentali: la costituzionalizzazione del dilemma etico, in Thanatos e Nomos, cit., 1/17. Chiarella, L’eutanasia: un problema giuridico al di là del bene e del male, in Thanatos e Nomos, cit., 127 ss.
[30] Non trovo convincenti né la giurisprudenza, né la dottrina pronunciatesi sul punto: Cass. Pen., sez. IV, 14/3/2008, n. 11335. Corte d’App. Milano, decreto 15/11-16/12/2006. Carnuccio, in Thanatos e Nomos, cit., 20 ss.
[31] Il problema è che la cura della persona e la interlocuzione del tutore coi medici è sempre e solo in favore dell’incapace e come tale può esplicarsi solo per promuove atti o attività migliorative delle condizioni del predetto incapace anche perché l’istituto dell’interdizione come quello sull’amministrazione di sostegno sono nell’interesse esclusivo dell’incapace o dell’indigente e pertanto l’ufficio tutorio – in mancanza di una disposizione normativa specifica – non potrà mai spingersi fino a decidere la fine della vita dell’incapace medesimo, soprattutto se questi non è nelle condizioni di dichiarare o altrimenti manifestare il proprio intendimento. Sulle perplessità in ordine al consenso e sulla inammissibilità del consenso espresso dal rappresentante legale o dei familiari, cfr. Agosta, Bioetica e Costituzione, Tomo II, Le fattispecie esistenziali di fine vita, cit., 58.
[32] A mio parere, senza usurpare le competenze di nessuno, il sistema normativo degli artt. 50 c.p. e 5 c.c. e 579 e 580 c.p., chiude il cerchio in ordine ai limiti di disponibilità della persona e sulla persona, ovvero sull’autodeterminazione e si pone in diretto rapporto coi valori costituzionali stigmatizzati negli artt. 2, 3, 13 e 32 Cost. In sostanza, piaccia o non piaccia il nostro ordinamento non conferisce cittadinanza ad alcuna forma di eutanasia. Ben inteso nulla a che fare con il rifiuto di cure o di accanimento terapeutico che è altra cosa. Tuttavia, ritengo altresì che nel sistema dei valori costituzionali nulla vieterebbe la introduzione di forme tipologiche di eutanasia, ma occorrerebbe rivedere gli articoli citati del codice penale. Quanto poi alla disquisizione sull’art. 50 c.p. – ma serebbe più esatto indicare anche l’art. 579 c.p. – come una mera operazione intellettuale in quanto la condotta del medico sarebbe lecita, in assenza di antigiuridicità per la validazione giudiziale, avrei seri dubbi e mi pare invece affermazione alquanto empirica e povera di argomentazioni giuridiche: Carnuccio, Il caso di Eluana Englaro e il diritto “umano”, cit., 31. Sull’argomento eutanasia cfr. C. Pedrazzi, Consenso dell’avente diritto, in Enc. Dir., IX, 1961. R. Riz, Il consenso dell’avente diritto, Torino, 1979. F. Mantovani, Aspetti giuridici dell’eutanasia, in Arch. giurd., 1988, 67/81. Id. Diritto penale, Parte Generale, Padova, 2007, 325 ss. S. Canestrari, Le diverse tipologie di eutanasia: una legislazione possibile, in Riv. it. med. leg., 2003, V, 751. G. Cassano, Accanimento terapeutico ed atti eutanasici, in Riv. pen., 2002, 947.
[33] Derrida, Donare la morte. cit., 88.
[34] Heidegger, Essere e tempo, cit., 28 ss. e 68 ss.
[35] Derrida, La scrittura e la differenza, Torino, 2002, 41.
[36] Attraverso consulenze tecniche non stereotipate e della tipologia del burocratismo giudiziario, bensì ricorrendo a collegi di esperti competenti nelle materie specifiche a seconda dei casi. Un ausilio potrebbe venire dalle esperienze maturate in materia di minori nei casi affido e/o in altri casi riguardanti le problematiche famigliari complesse e in particolare sull’ascolto del minore. Martinelli e Mazza Galanti, L’ascolto del minore, in Affidamento condiviso e diritti dei minori a cura di Dogliotti, Torino, 2008, 249 ss., secondo cui è il minore che dà contenuto all’ascolto, anche con il silenzio e non il giudice: “audizione” è concetto diverso da “interrogazione”. M.G. Domanico, L’ascolto del minore nei procedimenti civili, Relazione al seminario della Camera Minorile di Milano del 24 giugno 2008, in – www.minoriefamiglia.it – 1/15. Pazè, L’ascolto del bambino, sul sito www.minoriefamiglia.it, 13.
[37] 37Fermo restando che il consenso deve essere sempre riferibile o imputabile alla persona incapace. Agosta, Bioetica e Costituzione, Tomo II, Le fattispecie esistenziali di fine vita, cit., 58. Le fonti interne citate a proposito del consenso informato sull’aborto della incapace e sull’applicazione della buona pratica clinica nell’esecuzione delle sperimentazioni cliniche di medicinali per uso clinico e altre ancora non giovano per ritenere ammissibile un consenso fine-vita sia perché dalle stesse – per la loro specificità e circospezione – non si evince una portata significativa oltre i casi in esse previsti, sia perché trattandosi di ipotesi specifiche per casi specifici devono ritenersi di stretta interpretazione ex art. 14 Preleggi da cui non è legittimo ricostruire un principio generale tanto più per un atto estremo e terminale che riguarda l’esistenza dell’essere umano. Altrettanto non si sarebbe potuto fare riferimento alla Convenzione di Oviedo del 4/4/1997 perché all’epoca non ratificata dal Parlamento e quindi priva di efficacia giuridica nell’ordinamento italiano. Tanto meno possono essere di aiuto le riportate legge francese in lingua francese ed alcune “massime” o parti di esse di due sentenze della Corte Suprema USA e una della Corte Suprema dello Stato del New Jersey in lingua inglese. Tutt’al più possono servire come termini di confronto e per spiegare una determinata interpretazione della norma data, ma non per farli assurgere a fonti integrative dell’ordinamento. Per tutti cfr.: F. Gazzoni, Sancho Panza in Cassazione (come si riscrive la norma sull’eutanasia in spregio al principio della divisione dei poteri), in Diritto di famiglia e delle persone, n. 1/2008, 107/131. G. Vassalli, su “Il Foglio” del 16/7/2008 dal titolo “Eluana, spegnerla è un reato”.
[38] Agosta, Bioetica e Costituzione, Tomo II, Le fattispecie esistenziali di fine vita, cit., 58 ss.
[39] Sulla c.d. pre-condizione dell’attualità del consenso la migliore dottrina esprime perplessità in quanto non ritenuto vincolante per il medico o perché troppo prematuro (elaborato in un momento di benessere psicofisico troppo lontano da un probabile decesso) o troppo ipotetico o perché troppo tardivo perché sviluppato in una fase assai prossima alla morte. Agosta, cit., 58, 59, 60.
[40] Con riferimento poi all’oggetto delle “testimonianze” o al thema probandum, ritenendo le dichiarazioni veritiere, chi può stabilire se ci sia stato un ripensamento non dichiarato sol perché non ce ne sia stata occasione. D’altronde quando la Englaro ha manifestato il suo pensiero non era un’occasione ufficiale che la impegnava per il futuro, né sapeva che quella dichiarazione sarebbe stata vincolante nel caso in cui si fosse trovata nello stato in cui purtroppo poi si è trovata. Chi potrebbe smentire che quella volontà fosse dettata da condizioni di forte impatto emotivo, come spesso capita, salvo poi ad avere ripensamenti, una volta messi di fronte alla responsabilità per gli effetti che quella dichiarazione comporta. Ho dato per scontato che l’incapace fosse un’adulta nel senso di aver conseguito il diciottesimo anno di età perché se il presunto consenso della pazienta fosse stato espresso quando era nacora minorenne si aprirebbe un’altra problematica questione. Ritiene, invece, che il consenso sia stato ricostruito in base ad elementi probatori chiari, univoci e convincenti, Carnuccio, Il caso di Eluana Englaro e il diritto “umano”, cit., 31.
[41] Sulle caratteristiche medico-funzionali del sondino nasogastrico, se è terapeutico o meno è questione del tutto sospesa e da dimostrare per larga parte della categoria medica. Di fronte a convincimenti che spacca la comunità scientifica è quanto mai azzardato sposarne uno di questi come se fosse, non la giusta soluzione, ma la comoda soluzione del caso. Sulle incertezze scientifiche cfr. Agosta, Bioetica e Costituzione, cit., 239, ma anche 143 ss., e 148/158.
[42] Sul distinguo “aiuto nel morire” e “aiuto a morire” e tra “lasciar morire” e “far morire”, cfr. Agosta, cit., 43/49.
[43] Il rifiuto delle cure comporta che il paziente continua a vivere naturalmente fin che cela fa, sicchè il decesso non è causato dall’intervento diretto del terzo che esegue il rifiuto legittimo del paziente, ma dalla mancata somministrazione delle cure. Per l’alimentazione assistita è diverso, perché il suo venire meno si trasforma in una esecuzione, in quanto, senza la stessa, si va incontro a morte certa. Mentre staccare la macchina medicale o sospendere la terapia medicosanitaria vuol dire lasciare il paziente al suo destino naturale, l’alimentazione se non è possibile in via autonoma per qualsiasi causa deve essere eteronoma, altrimenti si condanna il paziente a morte sicura. Tanto più quando il paziente, come nella specie, non è ammalato terminale e non è prossimo alla morte. In favore del mantenimento del sondino nasogastrico in quanto sostegno vitale si è espresso: Il Comitato per la Bioetica, L’alimentazione e l’idratazione di pazienti in stato vegetativo persistente, 30 settembre 2005. Sui risvolti penalistici: Carnuccio, cit, 20/34. M.C. Barbieri, Stato vegetativo permanente: una sindrome in cerca di un nome e un caso giudiziario in cerca di una decisione. I profili penalistici della sentenza cass. 4 ottobre 2008, Sez. I civ, sul caso di Eluana Englaro, in Riv.it.dir.proc.pen., 2008. Vassalli, “Eluana, segnerla è un reato”, cit.
[44] Per un’ampia rassegna sui diversi protocolli di organizzazioni mediche e sanitarie e sulle posizioni della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, v. Agosta, Bioetica e Costituzione, Tomo II, cit. 43, 143/150, 158
[45] Agosta, Bioetica e Costituzione, Tomo II, Le fattispecie esistenziali di fine vita, cit., 5 ss., 70, a proposito del programma nazista Aktion T 4 di selezione genetica mediante l’eutanasia imposta sugli stessi cittadini tedeschi non ebrei portatori di handicap, malattie e malformazioni. Mantovani, Eutanasia, in Digesto delle discipline penalistiche, cit., 424.
[46] Agosta, Bioetica e Costituzione, Tomo II, Le fattispecie esistenziali di fine vita, cit., 15 ss. e 57 ss. Mantovani, Eutanasia, in Digesto delle discipline penalistiche, IV, Torino, 1990, 424. Id. Problemi giuridici dell’eutanasia, in Arch. giur., 1970, 40. Id. Aspetti giuridici dell’eutanasia, in Arch. giur., 1988, 86.
[47] A. Incampo, Metafisica del processo, Idee per una critica della ragione giuridica, Bari, 2010, 12.
[48] Agosta, Bioetica e Costituzione, Tomo II, Le fattispecie esistenziali di fine vita, cit., 15 ss. e 57 ss. Mantovani, Eutanasia, in Digesto delle discipline penalistiche, IV, Torino, 1990, 424.
[49]Barcellona, Critica del nichilismo giuridico, cit., p. 177.
[50] Barcellona, cit., p. 173
[51] Barcellona, cit., p. 173
[52] esseri innocenti, non imputabili e non spiegabile dalle tecno-scienze. L’attenzione si appunta sul “come” e non sulla ricerca del “perché”: il “come” tralascia le domande sul senso e rinvia ad una misurazione ottimale delle funzioni. Il rapporto tra nichilismo e giustizia è problematico perchè: “ogni nichilismo considera priva di senso la discussione sulla giustizia, (…).”, sulla base della considerazione che agli esseri umani “appartiene la condizione insuperabile di una “ingiustizia radicale”.” Romano, La funzione del nichilismo giuridico nel nichilismo finanziario, cit., 12, Id. “Rivista di filosofia del diritto-Journal of legalPhilosophi, 2, 2012, 375-387. H. Kelsen, La dottrina del diritto naturale e il positivismo giuridico,Trad. it. di S. Cotta e G. Treves, 1959, in Teoria generale del diritto e dello stato, Milano, 407 ss
[53] 53L’impossibilità di accedere ad una giustizia piena nella coesistenza delle persone sarebbe dovuta alla inimputabilità degli eventi personali e sociali ad una volontà e alla libera scelta che può orientarsi verso il giusto oppure verso l’ingiusto, forme, queste, entrambe elise dall’“informe nulla” Romano, cit., 12.
[54] La sentenza diventa naturalmente un serbatoio vuoto pronto ad essere riempito di qualsiasi contenuto, una forma priva di senso, anzicchè forma sensata: rimane solo il rispetto della procedura; le modalità procedurali attraverso cui si arriva alla decisione e non la decisione in sé, come affermazione di diritto giusto. J. Carbonnier, Sociologie giuridique, Armand Colin, Paris, 1972/1979, 158. Per Kelsen, la sentenza è valida perché è stata posta da un’autorità competente, in Kelsen, La dottrina del diritto naturale e il positivismo giuridico,cit. , 407 ss.
55V. retro note: 16, 17, 18.
[56] M. Scheler, Il formalismo dell’etica e l’etica materiale dei valori. Nuovo tentativo di fondazione di un personalismo etico, Torino, 1996, 118, 214 ss.
[57] Quindi ad un “io” non ridotto ad oggetto di spiegazione scientifico-sperimentale che lo destruttura in una serie di “io”, in relazione corrispondente alle diverse esigenze dei sistemi sociali e del mercato. Scheler, Il formalismo dell’etica e l’etica materiale dei valori. Nuovo tentativo di fondazione di un personalismo etico, cit., 465/473.
[58] Barcellona, cit., 262.
[59] Proto Psani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2012, 6.
[60] E’ buono tutto ciò che viene desiderato ed il volere non è sorretto da una guida morale ma da rapporti di potenza. Scheler, Il formalismo dell’etica e l’etica materiale dei valori. Nuovo tentativo di fondazione di un personalismo etico, cit., 214.
[61] Romano, Le funzioni del nichilismo giuridico nel nichilismo finanziario, cit. 13 ss.
[62] Sul concetto di mascheramento nel pensiero nichilista: Monateri, Interpretazione del diritto, in Digesto delle Discipline Privatistiche, sezione civile, cit., 53.
[63] Luogo de-soggettivato del nichilismo giuridico perfetto che utilizza la forma informe di una legalità contenitore per qualsivoglia pretesa. Romano, Scienze giuridiche senza giurista, cit., 106/107 e ss.
[64] 64Nel mondo del diritto il problema dell’etica è avvertito tanto negli ordinamenti normativisti o di “civil law” quanto in quelli giusprudenziali o antinormativisti di “common law” sia da parte dei giudici che degli avvocati, professionisti che sebbene in ambiti distinti e autonomi rispetto al sistema positivo e alle norme che in esso disciplinano le rispettive attività funzionali, concorrono nella realizzazione del valore superiore della giustizia in posizione tendenzialmente uguale in termini di elevatezza. Nel tentativo intrapreso di far fronte alla deriva nichilista, pur resistendo a richiami evocativi della metafisica e/o di trascendenza del diritto anche in termini a-teologici e rimanendo in un ambito strettamente immanentista, il richiamo all’etica sul piano interpretativo costituisce un sicuro riferimento. In una recente occasione ho fatto appello all’etica giuridica senza menzionarla espressamente ma facendo riferimento alla sua essenza richiamandomi ai valori espressi nella Carta fondamentale proprio in contrapposizione al nichilismo giuridico e giuridico applicativo: Il nichilismo giuridico e sue implicazioni nel diritto processuale civile. Schizzi di ragionamenti. cit., 34.
[65] L’etica o filosofia morale è da sempre oggetto di disciplina della riflessione filosofica. Essa presenta un aspetto descrittivo in relazione alla condotta morale e ai valori a cui si ispira e un aspetto normativo in ordine ai valori e ai criteri che devono essere seguiti. Le molteplici teorie filosofiche intorno al tema dell’etica si possono ricondurre a due modelli fondamentali : uno di tipo teleologico, fondato sul “fine” (thelos) di origine aristotelica e domina fino a Kant; l’altro di tipo deontologico, fondato sul “dovere” (deon), che è quello Kantiano. Il dibattito contemporaneo pur nella continuità dei modelli testè menzionati predilige l’approfondimento di settori particolari dell’etica, come la bioetica, l’etica del desiderio, l’etica dell’ambiente, l’etica della comunicazione, l’etica della differenza sessuale (Lévinas fa coincidere la moralità dell’azione con l’attenzione all’altro). Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, cit., 20 ss. La domanda da cui tutto muove per Aristotele è “che cosa è il bene per l’uomo?”. Il sommo bene è la felicità la quale consiste in “un’attività dell’anima razionale secondo virtù e, se le virtù sono molteplici, secondo la più eccellente e la perfetta”. Aristotele, Etica Nicomachea, Libro I, in www.filosofico.net, 1/6.
[66] L’etica aristotelica – a differenza di Platone che detta regole morali e si adopera sul come cambiare la vita dell’uomo – è una scienza eminentemente pratica. Essa non contiene norme di carattere assoluto; non è una scienza esatta e non aspira né alla verità assoluta, né alla precisione delle dimostrazioni matematiche. Per lo Stagirita, l’etica si occupa di questioni relative ai costumi e alle abitudini proprie degli uomini, che sono di per sé mutevoli e relativi e non rendono possibili giudizi rigorosi e definitivi. I giudizi etici, per lo Stagirita, si devono adattare alle situazioni concrete della società e non aspirano alla verità assoluta, in quanto valgono, solo come dice lui stesso, “per lo più”, ovvero, massimamente, senza escludere che possano andare diversamente. Aristotele, cit., Libro V, 2. La giustizia, a cui l’Etica Nicomachea dedica un intero Libro V, “è la virtù più efficace, e né la stella della sera, né quella del mattino sono così meravigliose, e cita il proverbio …: Nella giustizia ogni virtù si raccoglie in una sola”. Per Kierkegaard l’etica è il generale ed il generale è il manifesto. Timore e tremore, cit., 79 ss.
[67] “… che rispondono dei propri atti e non già su quella di sistemi o di organizzazioni. E’ questa l’innegabile grandezza del diritto.; esso ci costringe tutti a focalizzare la nostra attenzione sull’individuo, sulla persona, anche nell’epoca della società di massa, un’epoca in cui tutti si considerano più o meno come ingranaggi di una grande macchina – sia questa la macchina ben oliata di qualche gigantesco apparato burocratico, sociale, politico o professionale, o la macchina caotica e rattoppata delle semplici circostanze fortuite in cui sono intrappolate le nostre vite.”. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, cit., 12. L’agire responsabile esige scienza e coscienza di sé sufficienti: l’impegno in un agire, un fare, una praxis, una decisione. Un’azione responsabile risponde, rendiconta di sé in coscienza, ovvero, nel sapere tematico di ciò che viene fatto e di ciò che essa significa: le cose, le finalità ecc. Occorre tenere conto della coscienza teorica (coscienza tetica o tematica) e della coscienza pratica (etica, giuridica, politica). La responsabilità – ancor prima che sul piano giuridico, su quello etico e filosofico – consiste nel “rispondere” all’altro, davanti alla legge e al giudice terzo, pubblicamente, ove possibile, di se stessa, delle sue intenzioni, dei suoi fini e del nominativo dell’agente che si suppone responsabile. Sul piano filosofico moderno il concetto è espresso da Derrida, Donare la morte, cit., 63, 64.
[68] Patocka, Saggi eretici sulla filosofia della storia, cit., 155 ss.
[69] Bauman, Danni collaterali, cit., 24 ss
[70] Arendt, cit., 12 ss.
[71] Sul rapporto e la incidenza dei fattori evidenzianti e degli eventi evidenzianti sull’interpretazione: Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche, cit., 427
[72] Aristotele, Retorica, Trad. italiana a cura di M. Dorati, Milano, 2014, 23.
[73] Barcellona, cit., 216/217.
[74] La mitopoiesi, mutuando Lèvi-Strauss, Il pensiero selvaggio, trad. it. di P. Caruso, Milano, 1964, rispettivamente 291, nota I, 269.
[75] Al “se” appartengono interrogativi del tipo: in quali casi sia possibile porre termine alla propria vita; i soggetti legittimati a farne richiesta oltre all’interessato/ta; quali requisiti di forma e sostanza deve avere il consenso o l’atto di volontà a porre fine alla vita; chi deve accertare l’esistenza delle condizioni legittimanti la richiesta di porre termine alla vita. Al “come” appartengono interrogativi del genere: la forma processuale o il rito introduttivo; l’organo sanitario che deve procedere; i requisiti della struttura sanitaria; le modalità tecniche e medico-sanitarie con cui si deve procedere.
[76] Il riferimento è ad Agamennone in Ifigenia in Aulide di Euripide, a cura di Olimpio Musso, Torino, 2009, 27 ss.
[77] Non è una sospensione voluta, una epoché Husserliana, un esercizio tecnico sofisticato attraverso il quale si sospende la visione delle cose e la validità della visione medesima per meglio scrutare, scorgere, le “segrete” operazioni che costituiscono l’esperienza umana nel mondo e che nel quotidiano non appaiono. E’ tutt’altro, è sospensione come “finimento” della funzione. E’ a-funzione. E’ a-giurisdizione, non come non giurisdizione o come altro dalla giurisdizione, è a-temporalità del tempo del giudizio, del processo è sospensione della comprensione e del processo di svelamento e di dischiusura nell’ambito delle dinamiche mondane del processo.
[78] Kirkegaard, Timore e tremore, cit., 76/77.
[79] Gen., 22, 2.
[80] Ma perché il monte Moria? Il viaggio è durato tre giorni, perché? L’angoscia di Abramo dura tre giorni. Perché? Intanto perché Abramo doveva avere il tempo per ripensarci e di tornare indietro e perché il suo gesto doveva essere libero; perché il monte Moria rappresenta il luogo determinato per il compimento del rito, quindi non un luogo qualsiasi, ma il luogo luogo, come per il processo è l’Agorà, il tribunale, la corte. Il monte Moria non è un effetto stilistico o retorico.
[81] La Cassazione dopo aver ritenuto di rinvenire nel principio di autodeterminazione, desunto dagli artt. 2, 13 e 32 Cost. e 8 CEDU, sul quale si è detto, il diritto di morire o il rifiuto di vivere, senza tenere conto dell’intervento necessario del terzo, cita una pluralità di fonti esterne ed estranee all’ordinamento italiano. Menziona la Convenzione di Oviedo del 4/4/1997, all’epoca non ratificata dallo Stato italiano e quindi non costituente fonte di diritto interno. Né la Corte Cost., chiamata ad adiuvandum, con riferimento alle sentenze n. 46, 47, 48 e 49 del 2005, può affermare la vigenza giuridica della predetta Convenzione in sostituzione del Parlamento perché ad essa non compete un ruolo simile a quello della Corte Suprema USA, altrettanto citata unitamente alla Corte Suprema del New Jersey, per la totale diversità delle fonti di produzione del diritto nei sistemi di “common law” rispetto a quelli di “civil law”. Altrettanto dicasi per la citazione della normativa francese sulla fine-vita ed altre pronunce della Corte di Strasburgo nei confronti di altri Stati e quindi prive di efficacia interna all’ordinamento italiano. I passi delle sentenze americane sono riportati in lingua inglese e i passi della legge francese in lingua francese. L’art. 122 c.p.c. dispone che durante tutto il processo – sentenza compresa – è prescritto l’uso della lingua italiana e quando deve essere sentito chi non conosce o non parla l’italiano deve essere nominato un interprete che presta giuramento e diventa ausiliare del giudice. Per ulteriori considerazioni sul punto, mi permetto di rinviare al mio Nichilismo giuridico e sue implicazioni nel diritto processuale civile. Schizzi di ragionamenti, cit., 22 ss. E’ questo uno dei passaggi in cui maggiormente si rivela il nichilismo giuridico applicativo o attuativo: la concezione formalistica “insensata”, in contrapposizione a “forma sensata”, dell’attività giurisdizionale; la sentenza come contenitore-forma capace di qualsiasi contenuto e di trattare qualsiasi materia; il diritto ridotto a mera tecnica che trova una fonte salvifica nella forma in quanto risultato di un meccanismo tecnico La fonte della decisione è fuori dall’ordinamento posto. La “norma” non norma perché priva di giuridicità è totalmente inventata, costituita esclusivamente dai fattori integrativi esterni o da una interpretazione del mondo non giuridicamente apprezzata e proveniente da sistemi parziali socialmente dominanti. La scienza privata del giudice si sostituisce all’interpretazione e colma la lacuna legislativa. Le norme processuali, private della loro strumentalità funzionale all’accertamento della verità e alla realizzazione del diritto sostanziale attraverso la individuazione e applicazione della norma al caso singolo, diventano dei condotti: condutture entro cui fluiscono elementi estranei al diritto, interpretazioni socialmente dominanti, non garantite giuridicamente da un testo normativo formale, perché espresse da altri sistemi parziali della società. La passione sacrificale di Bartleby, lo scrivano, che lo conduce alla morte data dalla società che non sa neppure perché agisce così. Il riferimento è all’opera di Herman Melville, Bartleby, lo scrivano, trad. it. di Gianni Celati, Milano, 1991.
[82] Romano, Scienza giuridica senza giurista,il nichilismo perfetto, Torino, 2006, 117. Il nichilismo come tesi sull’interpretazione: Monateri, Interpretazione del diritto, in Digesto delle Discipline Privatistiche, sezione civile, cit., 52/54.
[83] Grasso, La collaborazione nel processo civile, cit., 596. Nella dialettica, tra il giudice e le parti, che riflette quella tra autorità e verità, il profilo funzionale si appiattisce su quello strutturale. A siffatto appiattimento conduce la concezione del processo inteso come successione di poteri ed atti in cui il potere o l’atto successivo trova fondamento e legittimazione in quello precedente, così: E. Fazzalari, Note in tema di diritto e processo, Milano, 1957, 110 ss. Sul rapporto tra struttura e funzione: F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, Roma, 1951, 11 ss. Incampo, cit., 23 ss. La concezione giusformalistica, secondo la quale ogni norma trae la sua validità da una norma superiore, il processo è considerato valido quando la sentenza è pronunciata da un organo competente: Kelsen, La dottrina del diritto naturale e il positivismo giuridico,cit., 407 ss.
[84] Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria, cit., 18-19.
[85] Non di rado il processo viene ritenuto socialmente accettabile sol perché siano state osservate le forme prescritte dalla legge. V.N. Luhman, Procedimenti giuridici e legislazione sociale, Milano, 1995, 75/115. E sempre non di rado si parla di pure proceduraljustice, quale giustizia indipendente dai risultati che produce salvo poi a definire imperfetta la procedura tesa all’accertamento della verità. J. Rawls, A theory of justice, Cambridge (Mas.), 1971, 83.
[86] Il contraddittorio e la tutela del diritto di difesa emerge sia nella normativa convenzionale: Art. 6. 3, CEDU; art. 14. 3, Patto Int. dir. civ. pol.; sia nella giurisprudenza della Corte Eur. Dir. dell’Uomo, Sez. V, sent. 10/2/2022, 3A.CZ s.r.o. c. Repubblica Ceca, § 39; sent. 25/3/1998, Belziuk c. Polonia § 37; set. 19/12/1989, Kamasinski c. Austria, § 102.
[87] Tali procedimenti si caratterizzano per la sommarietà del rito, si svolgono in camera di consiglio e generalmente non hanno natura contenziosa, servono a dirimere situazioni di interesse e solo eccezionalmente situazioni di diritto ed i cui provvedimenti sarebbero insuscettibili di passare in giudicato in quanto sempre revocabili e modificabili ai sensi dell’art. 742 c.p.c. Sulla natura dei procedimenti in camera di consiglio e dei relativi provvedimenti, cfr. Proto Pisani, La tutela giurisdizionale dei diritti della personalità: strumenti di tutela, in Foro it., 1990, V, 17; Id. Usi e abusi della procedura camerale ex artt. 737 ssc.p.c., in Riv.dir.civ., 1990, 402-403 ss. Proto La riforma del procedimento possessorio, in Giust. civ., Milano, 3/2007, 85, nota 4, 93/95, note 32 e 36. Id.: Fase presidenziale nel giudizio di separazione giudiziale, cit., 1542, nota 12, 1544 ss., nota 18. Il Supremo Collegio è approdato ad un nuovo orientamente che apre alla ricorribilità ex art. 111 Cost. per alcuni provvedimenti camerali contenziosi: in tema di immigrazione e assistenza familiare a minori: Cass. Sez. Un., 16/10/2006, n. 22216, in Dir. e giustizia, 2006, 41, 30, con nota di M.R. San Giorgio; in tema di attribuzione del cognome al figlio naturale ex art. 262 c.c.; Cass. 7/6/2006, n. 13281, in Rep. Foro it., 2006, voce Filiazione, n. 53. L’orientamento classico e costante era quello di ritenere i provvedimenti camerali ancorchè contenziosi privi del carattere della decisorietà e definitività in senso sostanziale. Per tutti cfr.: Cass. Sez. Un., 10/6/1988, n. 3931, in Foro it., 1988, I, c. 1858.
[88] Proto Pisani, La tutela giurisdizionale dei diritti della personalità: strumenti di tutela, cit., 17; Id.: Usi e abusi della procedura camerale ex artt. 737 ssc.p.c., cit., 402/403 ss. Proto La riforma del procedimento possessorio, cit. 85, nota 4, 93/95, note 32 e 36. Proto, Fase presidenziale nel giudizio di separazione giudiziale, cit., 1542, nota 12, 1544 ss., nota 18.
[89] Il P.M. interveniente non è parte, non è un “chi unico pubblico” come stabilito anche da Cass. Sez. Un. 13.11.2007, n. 27145. In dottrina, contra: Murra, Parti e difensori, in Digesto delle Discipline Privatistiche, sezione civile, XIII, cit., 265.
[90] Il curatore speciale nominato ai sensi dell’art. 78.2 c.p.c., a mio avviso, non è parte processuale in senso tecnico, ma va a riequilibrare la situazione all’interno del rapporto di rappresentanza legale tra tutore ed incapace per dipanare un eventuale conflitto di interessi. Quindi rientra e appartiene al medesimo ambito soggettivo ed è di completamento funzionale della rappresentanza, un’integrazione soggettiva, per dirimere il conflitto di interessi. Il chi unico complesso” iniziale, diventa “chi unico a complessità funzionale”. V. retro nota 23.
[91] Artt. 247, 249 c.c.; 273 c.c.
[92] Sul rapporto unisoggettivo, v.: S. Pugliatti, Il rapporto giuridico unisoggettivo, Milano, Dir.civ., Metodo teoria pratica, Saggi, 1951. Id. La logica e i concetti giuridici, Riv.dir.comm., 1941, I, 197 ss.
[93] Caponi – Proto Pisani, Il caso Englaro: brevi riflessioni dalla prospettiva del processo civile, cit., 2.
[94] Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, cit., 6.
[95] Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria,cit., 14.
[96] E. Bertacchini, Ermeneutica giuridica e tendenze evolutive nel diritto dell’impresa, in Contratto e impresa, Padova, n. 2, 2006, Sezione I, 402/416. Scalisi, Categorie e istituti del diritto civile nella transizione al postumanesimo, cit., 78/79. Id. Dalla Scuola di Messina un contributo per l’Europa, cit., 22.
[97] S. Menchini, Regiudicata civile, in Digesto delle Discipline Privatistiche, Sezione Civile, XVI, Torino, 1990, 426.
[98] Hegel, Fenomenologia dello spirito, 1995, 682/683, afferma che: “Il rapporto di mediazione è quello in cui i due termini rapportati non sono un’unica e medesima cosa, ma sono l’uno per l’altro, e costituiscono una unità solo in un terzo termine”.
[99] Il concetto di “gioco” impiegato nel testo è vicino a quello di Gadamer, Verità e metodo, trad. it. a cura di Vattimo, Milano, 1983, 132 ss., laddove il “gioco” viene in rilievo o si automanifesta nella sua oggettività ed i soggetti che lo animano non sono i protagonisti, ma è il gioco stesso ad esserlo. Il gioco rappresenta una totalità di significato che ha una sua propria dinamica che trascende i singoli giocatori.
[100] Sulla forma vincolata di taluni procedimenti: Proto La riforma del procedimento possessorio, cit., 85, nota 4, 93/95, note 32 e 36.
[101] Sulla forma introduttiva vincolata dei procedimenti di separazione e divorzio rinvio a: Proto, Fase presidenziale nel giudizio di separazione giudiziale: la questione sulla competenza territoriale ed i poteri presidenziali, cit., 1542, nota 12, 1544 ss., nota 18.
[102] Sui procedimenti di separazione e divorzio, mi permetto di rinviare a: Proto, Fase presidenziale nel giudizio di separazione giudiziale: la questione sulla competenza territoriale ed i poteri presidenziali, cit., 1538 ss.
[103] L’art. 24 Cost. nelle modalità dell’art. 99 c.p.c. costituisce l’avvio del processo. La norma costituzionale incorpora il potere d’azione o c.d. diritto di azione, problematica che per ragioni evidenti di economia esula dal presente lavoro. L’azione si esercita attraverso la domanda (art. 99 c.p.c.) nella quale risiede la pretesa giuridica in ordine a un diritto sostanziale (affermato in via ipotetica) del quale se ne chiede il riconoscimento ma la cui esistenza o meno risulterà solo a seguito del processo con la decisione finale del giudice. La domanda giudiziale, contenente in sé il diritto sostanziale costituisce il collegamento tra diritto sostanziale e processo senza intaccare l’autonomia di quest’ultimo sancita dal predetto art. 24 Cost. come pure il collegamento stesso. Proto Pisani, Lezioni di Diritto Processuale Civile, cit., 197/198.
[104] Barcellona, Critica del nichilismo giuridico, cit., 262 ss.
[105] L’art. 24. 1 e 2, Cost. garantisce l’azione in giudizio a tutela dei diritti e degli interessi legittimi a condizione che questi siano effettivamente esistenti. L’accertamento dell’esistenza o meno della situazione sostanziale coinvolge direttamente l’attività cognitiva e che di diritti effettivamente esistenti debba trattarsi lo si deduce da una serie di conseguenze a carico del soccombente: condanna alle spese (art. 90 ss c.p.c.); condanna per responsabilità aggravata (art. 96 c.p.c.). F.P. Luiso, Diritto processuale civile, I, Milano, 2000, 28. Proto Pisani, Lezioni di Diritto Processuale Civile, cit. 197/198 e 445. L’ultima considerazione induce a ritenere che la pretesa astrattamente può contenere qualsiasi situazione.
[106] Barcellona, Critica del nichilismo giuridico, cit. 176.
[107] Sulla differenza tra lacuna di natura tecnica e di natura ideologica v.: Barcellona, Formazione e sviluppo del diritto privato moderno, cit., 104 ss.
[108] C. Bologna, Sentenza in forma di legge? Il caso Englaro e la lezione americana della vicenda di Terri Schiavo, in Forum di Quaderni Costituzionali (25 febbraio 2009), www.forumcostituzionale.it. Groppi, Il caso Englaro: un viaggio alle origini dello Stato di diritto e ritorno. Seminario ASTRID, Il potere, le regole, i controlli: la Costituzione e la vicenda Englaro, Roma 5 marzo 2009, cit., 1/13.
[109] Gadamer,Verità e metodo, cit., 382.
[110] Compito della jurisdictio è quello di spremere la legge e far uscire da essa la norma o le norme Taruffo, cit., 11 ss. Incampo, Metafisica del Processo, cit., 13 ss. Sulla terzietà del giudice e sull’interpretazione giudiziale: Cavallaro, Terzietà del giudice e creatività della giurisprudenza: il valore del precedente, cit., 455/466.
[111] Taruffo, Legalità e giustificazione della creazione giudiziaria del diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 12 ss.
[112] Una caratteristiica del nichilismo è quella da parte dell’interprete di discreditare, demonizzando, le doctrines avversarie per esaltare le proprie e attraverso poi un mascheramento della inesistente neutralità affermare significati “valoriali” appartenenti soggettivamente all’interprete stesso il quale avendo il potere di interpretare quel testo e di attribuirgli un senso, trasforma l’interpretazione in una questione di potere, quindi, di affermazione del potere vincente o del più forte, così il processo giuridico, luogo dell’interpretazione, diventa funzionale all’affermazione della forza-più. Sull’interpretazione da parte della corrente nichilista cfr.: Monateri, Interpretazione del diritto, in Digesto delle Discipline Privatistiche, sezione civile, cit., 53.
[113] Aristotele, Retorica, cit., 5. Lo Stagirita aveva ben intuito il pericolo dell’oscuramento del giudizio per cause soggettive personali del giudice e sui cui a distanza di migliaia di anni ci sarebbe ancora molto da dire come se nulla fosse stato detto. Qui ci limitiamo a rilevare che un esempio concreto dell’avvertenza aristotelica è data dalla corrente nichilista sull’interpretazione come affermazione del potere più forte che sovrasta l’avversario. Monateri, Interpretazione del diritto, in Digesto delle Discipline Privatistiche, sezione civile, cit., 52/53.
[114] Unica è la soluzione vera di un determinato problema storico: si tratta di trovare quella, la quale, una volta trovata, non potrà non avere una validità universale”. L. Pareyson, Esistenza e persona, I, Torino, 1950, 273.
[115] Quando una cosa diventa “altro” nel risultato di questo suo divenire non c’è soltanto l’altro, ma c’è piuttosto l’essere altro di ciò che è diventato altro. Hegel afferma che “il rapporto di mediazione è quello in cui i due termini rapportati non sono un’unica e medesima cosa, ma sono l’uno per l’altro, e costituiscono un’unità solo in un terzo termine.”. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., 682/683. Id.: Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 226, 385.
[116] Martines, Diritto costituzionale, cit., 161/164 e 178 ss.
[117] A mio avviso, non è un potere in senso tecnico, è una funzione (un ordine) e il raccordo indiretto e mediato col corpo elettorale tramite l’organo di autogoverno (CSM) non la rende un potere, tutt’al più un quasi potere o una potestà funzionale Non è qui in discussione il principio di montesquiana memoria della divisione dei poteri e delle funzioni e tanto meno l’autonomia ed indipendenza della magistratura. V. anche, Barcellona, Critica del nichilismo giuridico, cit., 176 ss. Sul problema della politicità del giudice: Martines, cit., 390/392.
[118] A. Giuliani, Interpretazione della legge, in Trattato Rescigno, I, Torino, 1982/84, 219 ss. G. Lazzaro, Argomento dei giudici: il linguaggio comune, d.l.c., 1979, 20. N. Bobbio, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1936; Id.: Il positivismo giuridico, Torino, 1996, 68. Cavallaro, Terzietà del giudice e creatività della giurisprudenza: il valore del precedente, cit., 455/466.
[119] Il riferimento è ai primi tentativi giudiziali conclusisi con pronunce di inammissibilità del ricorso sebbene con motivazioni non del tutto esaustive e soddisfacenti soprattutto con riferimento alle modalità di esercizio dell’azione e del contraddittorio: Decreto Tribunale di Lecco 2 marzo 1999; decreto Corte d’App. Milano 31/12/1999. Proprio quest’ultimo decreto ha evidenziato una situazione di incertezza normativa da non consentire l’adozione di una decisione nel merito della questione.
[120] Non capisco quegli autori che si ostinano a ritenere che il giudice debba dare in tutti i casi in presenza di una qualunque istanza-pretesa una risposta satisfattiva. Se così fosse anche le pratiche sociali giuridicamente riprovate dovrebbe paradossalmente trovare accoglimento. C. Bologna, Sentenza in forma di legge? Il caso Englaro e la lezione americana della vicenda di Terri Schiavo. Groppi, Il caso Englaro: un viaggio alle origini dello Stato di diritto e ritorno. Seminario ASTRID, Il potere, le regole, i controlli: la Costituzione e la vicenda Englaro, Roma 5 marzo 2009, cit., 1/13. Bucalo, Profili costituzionali rilevanti nell’ambito del “caso Englaro” e la necessità della disciplina sul “fine vita”, in Thanatos e nomos, Questioni bioetiche e giuridiche di fine vita, cit., 37 ss.
[121] Barcellona, Critica del nichilismo giuridico, cit., 279 ss. e 282/285. Gadamer, Verità e metodo, cit., 382. Barcellona, Formazione e sviluppo del diritto privato moderno, cit., 105 ss.
122 Sui vari intendimenti della teoria del diritto vivente: L. Mengoni, Diritto vivente, in Digesto delle Discipline Privatistiche, Sezione civile, VI, Torino, 1990, 447/448. Giuliani, Interpretazione della legge, cit., 222 ss. Barcellona, Critica del nichilismo giuridico, cit., 144/145. Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche, cit., 140 e nota 166.
[123] Per una approfondita analisi scientifica del sociologismo giuridico e della scuola del diritto libero, cfr. Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche, cit., 138 ss. Sul rischio della politicità del giudice come conseguenza della “Scuola del diritto libero”: Martines, Diritto costituzionale, cit. 390/394. Barcellona, Formazione e sviluppo del diritto privato moderno, cit. 105 ss.
[124] H. Kantorowicz, Der Kampf un die Rechtswissenshaft, Heidelberg, 1906, 13 e 41.
[125] R. Pound, Jurisprudence, III, St. Paul, Minn. 1959, 15. Sull’esempio del “bricoleur”, v. retro 26.
[126] Sulle ragioni attuali circa l’ambiguità del diritto naturale strumentalmente adoperato dalle “élites” del potere consolidato per promuovere un ordine mondiale che implica il venir meno delle sovranità nazionali e il senso stesso della democrazia, v.: Barcellona, Critica del nichilismo giuridico, cit., 285. Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche, cit., 138 ss. Giuliani, Interpretazione della legge, in Trattato Rescigno, cit., 220 ss. A. Kaufmann, Dal giusnaturalismo e dal positivismo giuridico all’ermeneutica, in Riv.int.fil. del dir., 1973, 712 ss.
[127] Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche, cit., 53/54.
[128] Inno ad Arimane di Giacomo Leopardi nella versione originale e in quella di Carmelo bene, in Virio DLOG. www.virio.it.
[129] Il sistema dei valori costituzionali chiamati in causa non consentono di legittimare l’eutanasia così come l’autonomia contrattuale non consente di stipulare mandati ad uccidere. Le disposizioni costituzionali dalle quali si estrae il principio di autodeterminazione hanno – se così si può dire – valore neutro nel senso che lette sistematicamente e teleologicamente con le altre disposizioni che regolano la direzione finalistica dell’autodeterminazione possono approdare ad un risultato o ad un altro. Come ho già avuto modo di dire, dette disposizioni, e l’autodeterminazione in sé e per sé forse, ma sarebbe da verificare – non sarebbero incompatibili con la introduzione di forme eutanasiche – ma bisognerebbe rivedere le norme del codice penale che fin quando esistono, così come sono, fanno sistema con le norme costituzionali e creano uno sbarramento, un limite invalicabile a qualsasi forma di eutanasia E poiché esistono mi inducono ad un altro tipo di lettura. I doveri di solidarietà umana e sociale verso l’incapace e l’indigente si sarebbero adempiuti rafforzando le condizioni dei medesimi attraverso la possibilità di ricoveri in strutture specializzate e sollevando o aiutando i familiari finanziariamente. Sul punto qualcosa la dice Agosta, Bioetica e Costituzione, Tomo II, Le fattispecie esistenziali di fine vita, cit., 239. E se tali strutture mancassero, la soluzione sarebbe data dalla ricerca degli strumenti più idonei tra quelli a disposizione. Il primo comma dell’art. 32 Cost. garantisce cure agli indigenti dopo aver sancito che la tutela della salute è diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività e la realizzazione di questo diritto fondamentale richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà ex art. 2 Cost. e atti propositivi ex art. 3. 2, Cost. di rimozione degli ostacoli che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana. La vera solidarietà è verso e pro la persona che soffre non nella sua soppressione perché non si può o non si vuole sopportarne la sofferenza129. In tal senso: C. Mortati, La tutela della salute nella Costituzione italiana, Raccolta di scritti, 1972; P. Perlingieri, Il diritto alla salute quale diritto della personalità, in Rass.dir.civ., 1982. I valori costituzionali testè ricordati sono valori di vita, non valori di morte e tanto meno di morte a tutti i costi e della morte degli altri. Questa mia lettura delle norme costituzionali spero serva a dimostrare la non univocità di senso e valoriale delle stesse, sicchè coglierne il momento valutativo non è compito del giudice ma del legislatore che, attraverso la normazione ordinaria, traduce tutti questi valori in fattispecie generali ed astratte ma con riferimento a specifiche materie. L’interpretazione in chiave costituzionale delle norme ordinarie o, secondo un’infeliche espressione, in modo costituzionalmente orientata, e delle stesse norme costituzionali, deve avvenire secondo i canoni ermeneutici posti dall’art. 12 Preleggi, senza sostituirsi alla Corte Costituzionale disapplicando norme di legge ostative del risultato voluto e senza mediare tra generale e generale, ma enucleando dal sistema quella norma che meglio si confà per quel determinato caso concreto. Allo stato il sistema positivo (artt. 579 e 580 c.p.) non consente, piaccia o non piaccia, né l’eutanasia, né il suicidio assistito. Nessun tipo di analogia mascherata o di mascherato ricorso ai principi generali e nemmeno una sorta di formula di G. Radbruch consentirebbe di far rientrare il caso in parola non previsto nel principio che governa le norme particolari sull’autodeterminazione. Di analogia mascherata parla Lazzaro, Argomenti dei giudici: il linguaggio comune, cit., 20. L’autodeterminazione trova spazio operativo nell’ambito del rifiuto delle cure o dell’accanimento terapeutico e nella facoltà, questa sì, di lasciarsi morire, senza però aiuti o interventi di terzi. La sospensione dell’alimentazione ed idratazione assistita – in quanto sostegni vitali – richiede l’intervento del medico e non differirebbe da un’iniezione letale. A maggior ragione se tale sospensione viene praticata su di una paziente, sia pure incapace ed in istato di coma VP, non in fase terminale e nemmeno in imminente pericolo di vita, atteso tra l’altro l’assoluta incertezza sulla serietà ed autenticità del consenso enucleato da indizi, in assenza di pieno contraddittorio.
[130] Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 226, 385.
[131] Sul significato concettuale di “mascheramento” si rinvia a Monateri, Interpretazione del diritto, in Digesto delle Discipline Privatistiche, sezione civile, cit., 53. Sull’analogia mascherata, v.: Lazzaro, Argomenti dei giudici: il linguaggio, comune, cit., 20.