Domenico Sorace
Uno dei più rilevanti punti di criticità che segnano il servizio giustizia italiano riguarda le plurime ragioni di inammissibilità/improcedibilità/decadenza che, con percentuali sempre più vistose, vedono arrestarsi l’iter processuale prima che abbia luce la risposta giudiziaria.
Il modello che è andato affermandosi sembra invero essersi orientato, piuttosto che a valorizzare il principio di effettività, prontezza ed equilibrio della giurisdizione, a potenziare, per un verso, gli strumenti normativi ed interpretativi di decapitazione in rito del processo, per altro i fattori dissuasivi, attraverso condanne alle spese esemplari, utili ad orientare verso soluzioni differenti (rinuncia al bene della vita, ricorso al compromesso o alla mediazione di terzi).
Insomma, la sensazione è che la giustizia, piuttosto che epicentro del sistema civile e sociale, al pari dell’istruzione, dell’ordine pubblico, della sanità, sia divenuto una sorta di lusso borghese, da assegnarsi a chi può sostenerne il peso e negarsi alle fasce di popolazione più fragili.
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E tuttavia, la giustizia costituisce uno dei fattori di equilibrio di uno Stato di Diritto. Essa deve la sua importanza al principio di universalità, da intendersi come opportunità per tutti di accedervi in condizioni di parità e come aspettativa legittima ad una decisione imparziale e secondo diritto, idonea a dirimere la controversia e porre fine al conflitto sociale.
Tale, del resto, è il costrutto dell’impianto costituzionale che, seguendo una linea di pensiero di matrice illuminista, con l’art. 24 ha asserito che Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi e, con l’art. 111, ha affermato che La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata…
Dunque, la giurisdizione è un dovere alto e supremo dello Stato ed è, corrispettivamente, un diritto assoluto ed inalienabile del cittadino. Ne segue che essa deve consistere in un “dictum” attivo, idoneo cioè a sedare il dubbio interpretativo tra le parti e, con esso, le ragioni della controversia.
E’ sul tale criterio che, in filiera, si fonda la pace sociale e, con essa, la costruzione di uno Stato di diritto credibile ed autorevole, munito di autodichìa giuridica e giudiziaria, a presidio delle ragioni dei suoi consociati e della certezza del diritto.
Ne segue che, nella misura in cui le contese interpretative e fattuali non trovino soluzione all’interno del sistema giudiziario, la certezza del diritto viene meno e la scala dei valori, su cui una società giuridica fonda il suo consistere, cede all’entropia ed al disordine sociale ed istituzionale.
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Del resto, tutte le mozioni di principio che animano i sistemi processuali vanno nella direzione della effettività della giurisdizione e pongono nomofilatticamente il criterio della certezza quale elemento distintivo della stessa.
L’art. 1 del Dlgs 104/2010, norma regolatoria del processo amministrativo, stabilisce in via di principio che La giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto Europeo, mentre
l’art. 2 del dlgs 174/2016, recante disciplina dei giudizi innanzi alla Corte dei Conti, stabilisce omologamente che La giurisdizione contabile assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo.
Lo stesso codice di procedura civile, nel definire le regole del processo, chiarisce che il senso di esso è l’emanazione di una sentenza regolatoria della controversia, presidiata dal principio di imparzialità, contendibilità e disponibilità delle rispettive domande ed eccezioni.
Pari intendimento trasuda dal codice del processo penale, il cui senso va nella direzione di pervenire ad un giudizio che metta al centro, quale fattore di interpretazione delle regole processuali, la tutela dei diritti dell’imputato e, correlativamente, delle parti offese e, in definitiva, l’interesse della comunità costituita ad una corretta ed attiva verificazione della pretesa penale.
Ebbene, a fronte di una simile impostazione costituzionale ed istituzionale, l’ordinamento giuridico italiano è stato raggiunto, negli ultimi decenni, da disposizioni ed interpretazioni idonee ad arrestare il corso della giurisdizione ad una fase antecedente alla sua fase decisoria. Si è, in altri termini, fortemente asserita la formulazione di decisioni di mero rito, per un verso idonee a funestare la domanda di giustizia dei consociati, per altro verso a caducarla definitivamente e renderla non più replicabile. Con conseguenze dirompenti per il principio costituzionale di tutela universale di diritti ed interessi legittimi e con conseguenze non meno gravi per la pulsione dello Stato verso la dimensione della certezza del diritto.
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Uno dei giudizi maggiormente colpiti da tale deriva è quello di Cassazione che, proprio in ragione della sua funzione regolatoria della legittimità interpretativa e dell’unità giurisdizionale, ha finito per determinare una falla gravemente lesiva del principio tutorio fissato dall’art. 24 della Costituzione.
Ciò è corso sotto un duplice binario: normativo per un verso, interpretativo per altro verso.
Quanto al profilo normativo, si pensi, dopo la riforma c.d. Cartabia, al giudizio di inammissibilità dell’appello penale, correlato ad una circostanza, francamente esiziale, dovuta alla mancata formalizzazione dell’elezione di domicilio (art. 581 commi 1 ter ed 1 quater cpp in combinazione all’art. 591 cpp). Oppure, sempre a proposito dell’appello penale, alla sanzione di inammissibilità che accompagna l’atto di appello, in relazione a questioni meramente redazionali: L’appello è inammissibile per mancanza di specificità dei motivi quando, per ogni richiesta, non sono enunciati in forma puntuale ed esplicita i rilievi critici in relazione alle ragioni di fatto o di diritto espresse nel provvedimento impugnato, con riferimento ai capi e punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione (art. 581 comma 1 bis). E’ facile cogliere, nella pedanteria descrittiva che connota l’art. 581 comma 1 bis cpp, lo scopo primario di anteporre all’urgere sostanziale della Giustizia la tensione formale ad arrestarne il corso ex ante con la scure dell’inammissibilità.
Ciò emerge con chiarezza solo confrontando il testo precedente, in cui il comma 1 bis era del tutto assente e la norma consisteva del solo comma 1, ancora esistente: 1. L’impugnazione si propone con atto scritto nel quale sono indicati il provvedimento impugnato, la data del medesimo e il giudice che lo ha emesso, con l’enunciazione specifica, a pena di inammissibilità: a) dei capi o i punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione; b) delle prove delle quali si deduce l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa o erronea valutazione; c) delle richieste, anche istruttorie; d) dei motivi, con l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta. Un testo, come si nota, molto meno esoso dal punto di vista formale, ancorchè non privo di insidie per il seguito dell’iter.
Del resto, l’inammissibilità è una sfida che il legislatore ha posto alla certezza del diritto in molte direzioni. Basterà annotare, a proposito di giudizio di cassazione civile, la sanzione di improcedibilità prevista dell’art. 369 c.p.c. in ipotesi di mancata produzione, in fase di “deposito del ricorso”, del decreto di concessione del gratuito patrocinio, di copia autentica della sentenza o della decisione impugnata, degli atti processuali, documenti e contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda.
E’ del tutto evidente che detta sanzione, proprio perché fondata su atti facilmente ripetibili o reperibili, appaia sproporzionata e frutto di impeto dissolutorio. Ben più coerente al principio di effettività della giurisdizione sarebbe stato concedere, con ordinanza, termine per un deposito postumo, trattandosi di atti precostituiti, e dunque, non manipolabili. Tanto più che, nell’era del processo telematico, dubitare dell’identità e provenienza della sentenza impugnata costituisce mozione avulsa dalla realtà. Stesso discorso valga per gli atti processuali, i documenti ed i contratti-accordi collettivi su cui il ricorso si fonda, universalmente accessibili con il processo telematico.
In definitiva, appare evidente che in tali prescrizioni si annidi non già una necessità costruttiva, ma una volontà di denegare il corso del sistema giustizia, in nome di un formalismo sospinto, secondo il brocardo “summum jus summa iniuria”, fino all’abdicazione della funzione.
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Né le cose sono risultate migliori, sempre riferendosi al giudizio di legittimità, nella dimensione interpretativa.
La “summa divisio” è insorta, soprattutto, con riferimento al principio di autosufficienza che, a pena di inammissibilità, deve accompagnare il ricorso per cassazione. Tale costrutto ha avuto la sua matrice nell’art. 366 c.p.c. che, nella stesura dovuta al dlgs 149/2022 (c.d. legge Cartabia), dispone: Il ricorso deve contenere, a pena di inammissibilità: 1) l’indicazione delle parti; 2) l’indicazione della sentenza o decisione impugnata; 3) la chiara esposizione dei fatti della causa essenziali alla illustrazione dei motivi di ricorso; 4) la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano;..6) la specifica indicazione, per ciascuno dei motivi, degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il motivo si fonda e l’illustrazione del contenuto rilevante degli stessi.
Ma in cosa consiste, in concreto, il principio di autosufficienza e come esso può sposarsi con il dovere dello Stato di rendere una giustizia effettiva ed utile? Ebbene, trattasi di un criterio di natura puramente redazionale a mente del quale, secondo l’interpretazione restrittiva data dalla Suprema Corte di Cassazione (Cass. Civ. I, 19.4.2022 n. 12481), il ricorso dovrebbe essere contenitore di tutti gli elementi, fattuali, documentali e giuridici, atti ad agevolarne la lettura al Giudice di legittimità e renderne manifesto il senso e lo scopo. Il che è stato inteso, inseguendo un modulo formalistico estremizzato, come onere attivo di riproposizione di motivi, atti, sentenze (Cass. Civ., Sez. VI, 27 luglio 2017, n. 18679). Una scure formale, ed altamente defatigaoria, che ha colpito migliaia di ricorsi e che è stata accompagnata, correlativamente, da condanne a spese di giustizia esemplari, dal valore sottilmente dissuasivo.
Una scure che ha sconvolto, altresì, le certezze degli Avvocati, disorientati al cospetto di regole redazionali assai severe e pedanti e, sotto altro aspetto, esposti alla reazione degli assistiti, sospinti verso la pericolosa deriva della responsabilità professionale.
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Né ha posto un freno a tale indirizzo il severo ammonimento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) che, con sentenza 28 ottobre 2021 (giudizio n. 55064/11 – Succi contro Stato italiano), ha condannato l’Italia per l’interpretazione eccessivamente formalistica dei criteri di redazione dei ricorsi in Cassazione, in violazione del diritto di accesso universale ad un giudice precostituito, per come previsto dall’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti.
Nel caso specifico la Corte di Cassazione aveva dichiarato inammissibile il ricorso perché il ricorrente: a) non aveva richiamato per ciascun motivo di ricorso uno dei cinque casi previsti dall’art. 360 c.p.c.; b) non menzionava gli elementi necessari per individuare i documenti a sostegno delle critiche formulate nei motivi. Ebbene, su tali aspetti la CEDU ha confutato radicalmente l’impostazione del giudice di legittimità italiano, assumendo che il corpo dell’atto consentiva ampiamente di dedurre gli elementi posti a fondamento del giudizio e che, pertanto, la sentenza della Suprema Corte si qualificava per un eccesso di formalismo ostativo, contrario al principio di giursdizione attiva fissato dall’art. 6 CEDU.
La risposta dello Stato Italiano è stata, come visto, la riforma Cartabia, ovvero un insieme di norme orientate a velocizzare i giudizi, a numerarne le estinzioni, a deflazionare il carico pendente, ma senza una precisa strategia tesa a valorizzare le ragioni della giustizia attiva invocata dalla Corte Europea e fissata dalla Costituzione.
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Concludendo, il sistema giudiziario italiano, per ragioni astrattamente condivisibili (smaltimento degli arretrati, velocizzazione dei giudizi, conseguimento di esiti attrattivi per gli investimenti internazionali, obiettivi fissati dal PNRR, etc..), ha imboccato una strada pericolosa e, per taluni aspetti, senza ritorno, orientata a dare maggiore valore alle ragioni numeriche che si annidano dietro una decisione in rito ed a depotenziare le ragioni costituzionali di una giustizia effettiva.
Si ricorda che dietro una domanda processuale si colgono ragioni di vita, ragioni cioè che attengono alla qualità dell’esistenza umana, alla felicità dei contendenti, al diritto ad una vita libera e dignitosa. Ogni giudizio di inammissibilità, così, diviene un colpo di maglio a tali ragioni e si abbatte, come un macigno inamovibile, sui valori profusi dagli artt. 24 e 111 della Costituzione, nonché dall’art. 6 della CEDU.
Si è provato, nel tempo, ad attenuare per via interpretativa la gravità di tali impatti ma, come si è visto, i codici hanno visto dilatarsi, piuttosto che attenuarsi, le disposizioni votate a caducare in rito la domanda processuale. Né gli interventi sull’autosufficienza del giudizio di cassazione, anche grazie agli ammonimenti della Corte EDU, hanno ottenuto premio. Si ricordano, sul punto, gli accordi protocollari succedutisi nel tempo, che hanno coinvolto anche il Consiglio Nazionale Forense ed il Ministero di Giustizia, dai quali, tuttavia, non è scaturita una chiara indicazione di ordine conservativo. Il punto è che, secondo le indicazioni dell’Ufficio Statistico presso la Corte di cassazione, le decisioni in rito sono, di anno in anno, in aumento e costituiscono una percentuale tale da costituire una vera e propria anomalia di sistema.
Con questo non intende dirsi che la domanda di giustizia debba seguire un corso necessariamente conservativo, anche in presenza di manifesti errori di impianto e costruzione. I limiti di inammissibilità, procedibilità e decadenza sono posti a presidio della regolarità del processo e, per questa via, vanno interpretati secondo criterio rigoroso e di stretta interpretazione. In questo senso, se un ricorso viene notificato tardivamente, ovvero se un adempimento imposto a pena di decadenza venga omesso o realizzato in ritardo, è giusto che il Giudice dichiari l’improcedibilità o l’inammissibilità.
Ciò che si contesta è che una ragione di arresto del giudizio possa essere rinvenuta in circostanze del tutto rimediabili o marginali (es., mancato deposito della copia autentica della sentenza impugnata o del decreto di ammissione al gratuito patrocinio, mancata dichiarazione di elezione di domicilio, etc.) o, comunque, opinabili (es., tecnica redazionale di un ricorso).
Ciò stride non solo con il buon senso, ma anche con il principio jura novit curia, secondo cui compete al giudice un approccio sostanzialistico alla domanda processuale. In questa ottica, applicando correttamente l’art. 113 c.p.c., è compito del Giudice supplire alle carenze della domanda, applicando le norme di diritto in funzione di una fattiva soluzione della controversia e ad evitare la deriva della denegata giustizia.
Per il resto, rimane da considerare come sia possibile che le torme di avvocati che affollano le aule del Parlamento rimangano silenti rispetto a simili questioni e si limitino ad approvare, evidentemente senza né leggere, né studiare, riforme che vanno in direzione contraria. Con ciò esponendo migliaia di colleghi, chiamati alla fatica quotidiana di un lavoro difficile ed insidioso, a reazioni sistemiche che gravano come un macigno sul sereno esercizio della professione.
L’auspicio è che possa prontamente tornarsi ad una giustizia che metta al centro l’uomo e non il sistema, capace cioè di riflettere sulle ragioni sociali più profonde della giurisdizione e, ad esito di ciò, di allontanare quanto più possibile lo spettro della denegata giustizia che si annida in ogni decisione in rito.
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